Tramonto romagnolo, una pianura troppo vicina
testo e foto di Luca Onofri
C’era intorno l’aria della fine di un mondo: almeno del mondo dell’agricoltura; e ogni vecchio paese aveva davanti una fila di case nuove, orribili, coi loro finti mattoni rossi o le nude pareti gialle, che li rendevano tutti uguali. La gente, poi, per le strade, era orribile; i giovani con quei loro capelli da puttane, coi loro codini e ricciolini, e nel viso stampato eternamente un ghigno di soddisfazione e di presunzione; le ragazze infagottate in quei loro miserabili maxicappotti, che davano loro un’aria mendica, quasi omosessuali in cerca di umilianti occasioni. Gli anziani intorno, come fantasmi, accantonati, silenziosi, chiusi nel dolore della loro esclusione.
P. Pasolini, Petrolio, Milano, Garzanti, 2022, p. 281
Mi sono imbattuto in questa manciata di righe di Pasolini leggendo Petrolio, anzi, addentrandomi nel folle e surreale labirinto di appunti incompiuti e, per tanto, eterni che è quell’opera. Una folgorazione improvvisa, una visione, o meglio, una finestra mi si è materializzata innanzi, spalancata tremendamente su quel mondo rurale e basso-appenninico in cui ho sempre vissuto. Credendolo eterno.
E da questa immaginaria finestra ho provato ad affacciarmi. Ho visto poco di positivo. Non ci sarà per tanto nulla di ottimistico nel riportare la mia visione allegorica, anzi sarà una visione anti-bucolica, se così si può rendere meglio l’idea.
La campagna è silenziosa, avvolta da una nebbia che, come un pesante sipario manierista color blu persiano, ovatta tutto, assopisce i colli e inclina leggermente le cime dei pioppi intrise di gelida umidità. Rimane solo un misticheggiante boato sordo ed ininterrotto, un rumore di ventole di lontani capannoni, persi fra i calanchi, come metalliche bestie giurassiche. Poche luci emanano i loro riflessi sul sipario notturno. Sole, sparute, disperse lungo i declivi dei colli a segnalare vecchie case anni ’70, ormai fagocitate da una vegetazione fatta di rovi ed altre sterpaglie nerastre.
Rimane poco dell’eternità in cui avevo sempre creduto fosse custodita la vita e la cultura rurale. Anzi, penso che ogni giorno tutto si stia consumando sempre più inesorabilmente. Di quella vita che un tempo animava la valle e che dalla valle traeva forza rimangono solo tracce, le quali altro non sono se non fantasmi di un passato che a stento si riesce a immaginare. Qualche rottame incancrenito dalla ruggine abbandonato fra i campi, mucchi di macerie sommerse dalla vegetazione giù per la lacrimante scarpata tufacea del fiume (un lavandino ancora luccicante emerge dalle verdastre acque stagnanti nel gorgo), un rudere di casa colonica con alcune modifiche apportate nel dopoguerra utilizzando materiale scadente e di breve durata (bucati rossastri, eternit annerito dalle muffe).
A costo di apparire apocalittico, fatico a non paragonare i miei sentimenti a quelli del poeta latino (ancora aveva un senso questo aggettivo nel V secolo?) Rutilio Namaziano, quando si trovava a descrivere in esametri un Impero d’Occidente che era ormai solo un vuoto nome, mentre tutto ciò che esso rappresentava era in pieno disfacimento.
Ma la mia sorte mi strappa via dalla terra amata,
mi richiamano i campi della Gallia, dove nacqui.
E sono, è vero, sfigurati dalle lunghe guerre,
ma quanto meno attraenti, tanto più destano compianto.
R. Namaziano, Il ritorno, tr. A. Fo, Torino, Einaudi, 1992, vv. 19-22
Sento che quel mondo inconsapevolmente pagano e paradossalmente spirituale in cui sono cresciuto nelle campagne romagnole è diventato come una fortezza sotto assedio. Che cerca di resistere. Ma la resistenza dell’assediato non può essere eterna. E penso alla parte di me che sarà costretta a morire quando l’ultima resistenza cadrà. Rifletto su me stesso, sulla routine borghese che mi costringe a vivere gran parte della giornata in un ambiente cittadino in cui mi sento soffocare, invecchiare, morire lentamente. Forse proprio dalla routine, o meglio, dai vincoli economici e dal loro sabotaggio dovremmo partire per resistere veramente? Penso agli anziani ridotti ad essere fantasmi, come dice Pasolini, vuoi perché ormai spariti per sempre nella tenebra eterna, vuoi perché vivi, ma divenuti semplici tracce della vita di un tempo (proprio come il vecchio lavandino dentro al gorgo del fiume). E penso che quando tutti saranno inesorabilmente spariti, allora saranno costretti a morire dentro di me, senza emissione di voce, i miei pensieri in romagnolo, che nessuno ormai più comprende o parla. Perdere una lingua significa perdere uno schema con cui interpretare la realtà e, in ultima analisi, significa perdere una parte di sé. Morire.
Non sono ottimista, mi sento un anti-Virgilio che non canta l’età dell’oro, ma quella del piombo che ci sta trascinando nell’abisso. Forse mi compiaccio di descrivere questa decadenza e della mia parte di epigono di un modo giunto ad esaurirsi. E il fatto che abbia parlato in prima persona singolare è sintomo di come non riesca nemmeno più ad avvertire l’appartenenza ad una comunità, che si è disfatta, che non c’è più, anzi che nemmeno ricordo esserci stata. D’altra parte la sfortuna dell’area collinare ed appenninica romagnola è quella di avere una pianura troppo vicina, che attrae con le sue lusinghe in modo irresistibile, come un mostro famelico dal canto di sirena pronto ad inghiottire qualunque cosa e ad avvelenare con i suoi miasmi ciò che gli sfugge. Ma voglio concludere in modo, oserei dire, speranzoso, la visione ispiratami da Pasolini.
Dietro la cortina di nebbia i pioppi carichi di guazza sono chini, come colossi intenti in orante adorazione. E sulle loro gobbe, in lontananza verso ponente, la livida linea spezzata dell’orizzonte appenninico arde degli ultimi bagliori di un tramonto rossastro, che neppure i fumi invernali riescono a coprire. Si consuma come brace la schiena ricurva dell’Appennino sul far della sera. E dall’alto planano i voli delle nere sagome delle cornacchie, che si adagiano rumorose sui rami dei salici, in attesa di rivedere lo stesso sanguigno bagliore riflettersi sul grigio orizzonte adriatico. Guardo il cosmo consumarsi nella sua ciclicità. E penso che tutto sia bello.