La primavera e il miracolo di Flora negato ai cittadini
Lungo tutta la dorsale appenninica la primavera ha la forza prorompente di un miracolo e si manifesta con mille volti e altrettante maschere. Come il vento di una tempesta di marzo, come una tramontana che ti prende a schiaffi, come il primo vero sole caldo d’aprile, come uno tsunami di verde, come una gigantesca porta che si riapre, come lotta eterna tra vita e morte, potenza numinosa, ebbrezza dionisiaca, inquietudine e bellezza. Infine dolcezza.
Per millenni l’arrivo della primavera è stato salutato e ritualizzato come l’evento principale del ciclo dell’anno: il suo ritorno era atteso fin da quando le giornate iniziano di nuovo ad allungarsi, al principio dell’inverno. Subito dopo prendeva il via la pantomima sacra e profana, con la rappresentazione festosa e drammatica dell’alternarsi dell’oscurità e della luce, fino al trionfo della vita, con la rinascita, con la resurrezione.
La primavera, epilogo di un ciclo tanto inspiegabile quanto concreto, era auspicata e ammirata come il simbolo di un conflitto cosmico così segreto e allo stesso tempo così evidente, tanto da non sfuggire ad animi semplici, ma aperti alle essenziali meraviglie della natura, ai suoi frutti, ai raccolti, alla prosperità delle messi e al lavoro come sacrificio.
Oggi invece la primavera è un miracolo negato a chi ha scelto di vivere nelle città, dove la rinascita delle erbe, il risveglio di Persefone, è salutato solo dalle proteste di chi chiede a gran voce l’intervento delle falciatrici affinché il buon ordine borghese del prato all’inglese possa regnare sovrano in ogni giardino, pubblico o privato che sia, e ad ogni latitudine.
Per contro, sulle colline preappenniniche, tra gli uliveti, sotto le cime, sul limitare dei boschi, le erbe sono libere di costruire gli steli, di salutare la primavera, di trasformarsi e di ricoprire le sterrate e le sassaie, di colorarsi e di fecondarsi.
Il miracolo negato a chi vive nelle città e ancora di più a chi vive nel web, o nel metaverso prossimo venturo, è quello dei colori, degli odori e dei profumi e quello della soddisfazione per il nuovo raccolto che si preannuncia nella crescita dirompente del grano, nella nascita degli agnelli, nei ronzii delle api, nei germogli delle viti.
Chi sostiene l’importanza dell’ecologia dovrebbe preoccuparsi degli effetti della destagionalizzazione sulla cultura popolare, prima ancora che del surriscaldamento del pianeta.
Oggi siamo quasi tutti rinchiusi in bolle inaccessibili ai cicli della natura, con termosifoni e refrigeratori che non ci fanno mai allontanare dalla nostra zona di conforto, ci alimentiamo con cibi destagionalizzati, mangiando pomodori in inverno e noci d’estate, mele e fichi tutto l’anno.
Scompare il ciclo dell’anno, fondamento della cultura della civiltà agraria, base della nostra visione religiosa, di una saggezza popolare che si esprimeva in proverbi, regole di comportamento, usi, festività. Tutto questo sta venendo meno, in apparenza in maniera inesorabile e irreversibile.
Eppure la primavera arriva e i luoghi nei quali si manifesta più selvaggiamente restano, anzi diventano sempre più selvatici.
Siamo al punto di passaggio tra due civiltà, due modi d’intendere la vita e i luoghi, tra virtuale e reale.
Ma non si può procedere per salti. Ragionevolezza, sensibilità e la stessa genetica ci dovrebbero consigliare di contaminare le due civiltà l’una con l’altra, lasciando aperta la porta e cercando di tenere con noi il meglio nel nostro bagaglio, per continuare a camminare nella direzione giusta.
Perché, comunque, di primavere ne arriveranno sempre. E sopravvivrà degnamente solo chi saprà riconoscere Core, Persefone, Flora con il miracolo che annunciano e che ci offrono gratuitamente.