La notte di maggio: quando la porta si apre e torna Primavera, ma non da sola
Battere la terra. Batterla forte. E far sposare gli alberi, nutrire i morti e ridere di gioia, far nascere nuove vite. Mangiare i semi. Una festa, una tragedia.
Qual è il filo rosso che lega Eleusi e Feneo a un piccolissimo e appartato borgo della Valnerina nel Nursino? Cosa mescola le tradizioni nel periodo più critico dell’anno solare tra la Grecia e l’Appennino? Cosa rende irresistibile anche nella modernità l’attrazione per la notte più magica e tragica: quella del 30 aprile?
L’eco dei misteri celebrati ad Eleusi, a pochi chilometri da Atene, ha attraversato i secoli e i millenni. Da Eleusi si tornava cambiati. Per questo a Eleusi hanno guardato in tanti, prima da Roma e poi dalla Firenze rinascimentale.
A Eleusi, o verso altri misteri ancora più antichi, si andava in processione, una processione gioiosa e gaudente di carri, di donne discinte, di musici e di attori. E in una delle tappe di questo cammino i sacerdoti di Demetra, indossata la maschera della dea, battevano il terreno con i bastoni, forte. Come per inviare un messaggio al Regno di sotto. Un rito simile si ripeteva, fino a pochi anni fa nella chiesa di Logna e in altri luoghi del Nursino, con gli abitanti del posto che battevano il pavimento con bastoni di legno nella notte del Venerdì Santo, come ad invocare anch’essi l’apertura di una porta.
Misteri analoghi si possono incrociare ancora in Valnerina, a Preci, a Campi, a Norcia e poi in Abruzzo, in Molise e giù, fino alle dolomiti lucane, fino ad Accettura, nei tanti cuori dell’Appennino opportunamente dimenticati, protetti dalle montagne, dai boschi, dalle strade sconnesse e dagli antichi Numi, che fanno da argine ai guastatori della modernità.
Qui sopravvivono riti ancestrali.
Perché si celebrano ancora questi riti? Si fa così, perché s’è sempre fatto, ti rispondono se glielo chiedi. Non sanno perché, ma qualcosa dentro di loro lo sa.
Lungo tutta la dorsale appenninica la primavera è l’evento principale del ciclo dell’anno: il suo ritorno è atteso fin da quando le giornate iniziano di nuovo ad allungarsi. Subito dopo prende il via la pantomima di una lunga lotta tra l’oscurità, il buio, la notte e il giorno, fino al trionfo della vita, con la rinascita, con la resurrezione.
Un conflitto cosmico segreto ed evidente che non sfuggiva agli animi semplici, ma aperti alle essenziali meraviglie della natura.
Così nel periodo pasquale s’iniziava a battere la terra, dentro una chiesa, aspettando la Resurrezione di Cristo, come già facevano i sacerdoti di Demetra per farsi sentire da Ade e Core, per risvegliarla, per invocarne il ritorno.
Così, quando si scioglievano le campane nel giorno della Pasqua, bisognava rotolarsi per terra, strusciarsi alla terra, come Demetra che si appoggia alla pietra che non ride, l’Ἀγέλαστος πέτρα, (agelastos petra), quella che la separa dalla figlia Persefone/Core, rapita da Ade che la tiene nel suo regno di tenebra.
Ma se la terra ascolta, se il rito si compie, Persefone ritorna e diventa Core, e rende al mondo la primavera, la bellezza, la vita dopo la morte, forse.
Se la primavera torna in virtù del sacrificio di un agnello, di un capro, sul sangue versato insomma, come in una tragedia appunto, in una τραγῳδία (tragodìa), cioè con in sottofondo il “canto del capro” che muore sacrificato accompagnando i riti dionisiaci, questa primavera bellissima, carica di fiori e di aspettative, per certi versi crudele, occorre comunque celebrarla.
Tutto accade allora in una notte, che segue di poco quella del sacrificio: è la notte di Beltane, la notte di Valpurga, che precede il giorno di maggio (il May Day), la notte del “for’aprile e dentro maggio” come si dice in Appennino. Ma non è uno scherzo: bisogna soffrire ancora un po’ prima di godere dell’esplosione della primavera. Così, come chiedeva Aristofane, in questa notte “occorre dire e fare molte cose da ridere, ma altrettante cose gravi”.
Dal Nord al Sud dell’Europa, Core è ancora accolta trionfante, splendida e tremenda all’uscita dal Regno dei Morti.
Si manifesta nel matrimonio degli alberi in riti complessi e carichi di significato, come quello di Accettura con lo sposalizio tra il cerro e l’agrifoglio, o come quelli di Preci e della Valle Castoriana, con il matrimonio tra il pioppo bianco (l’albuccio) e il ciliegio che gli viene montato sopra.
Dovunque s’innalza il maggio, si fa fiorire un albero morto. La vita s’innesta sulla morte. Con le ghirlande e le danze in Britannia, con i colori e i nastri in Baviera, mentre nelle più cupe terre celtiche e germaniche si ripropone ancora la lotta con gli spiriti e le streghe.
In Appennino prevale l’aspetto dionisiaco e del baccanale e la notte di maggio è una festa, un corteo di giovani, un inno all’abbondanza, alla vita, all’allegria, alle libagioni e alle grazie femminili, simbolo di fertilità.
Ma se tale è la forza della primavera, non ne viene comunque estinto il mistero, né si ritrae la sua terribile ombra.
Così perfino nei borghi dell’Appennino dopo l’inizio della primavera, la porta aperta da Core/Persefone, la porta di Ade, resta socchiusa ancora per qualche tempo, quasi che la bella Core sia un po’ sbadata. Ma nulla accade per caso, semmai per volere degli dèi.
Occorre dunque mangiare le fave, (lo si fa ancora oggi, fave e pecorino). Non tutte però: bisogna lasciarne una piccola quantità per soddisfare i morti, perché in questa crisi universale del passaggio dall’inverno alla primavera, il mondo di sopra e quello di sotto si confondono.
Non a caso nell’antica Roma ai primi giorni di maggio seguivano i Lemuria, il periodo nel quali gli spiriti degli antenati, i Lemures, facevano visita alle loro famiglie e anche se non erano demoni e streghe come nella Walpurgisnacht nell’alto Hartz, i nostri allevatori e contadini d’Appennino sapevano bene che più di tanto non avrebbero potuto trattenerli nelle case, pure se erano i loro defunti, perché le porte tra mondi diversi non possono restare sempre aperte.
Perciò, nell’Appennino umbro, ma anche nelle tradizioni del Calendimaggio abruzzese, offrivano loro da mangiare simbolicamente un cibo propiziatorio, fatto di semi, di cereali, di fave.
“Che possiate rinascere anche voi!”, sembravano augurare ai defunti, come rinasce sempre la natura, la primavera, dai semi che si schiudono, come le porte.
Bastoni che battono, fave e cereali per i morti, porte che si aprono e si chiudono sono forse dunque tracce del grande culto della fertilità, con tutti i suoi misteri più profondi, con le sue luci e le sue ombre, che sono quelle di ogni essere umano che sappia indagare sé stesso.
Culti e misteri celebrati presso tutti i popoli della primavera da Eleusi ad Accettura, dalla Valnerina all’Irlanda, in Europa. Prima che venissero soppiantati, nella modernità, da un altro culto più materiale e ingannevole, in quanto incapace di aprire e chiudere le porte più profonde.
Non si può vivere senza l’invisibile, ma l’invisibile racchiude in sé la morte.
Roberto Calasso
Note: i riferimenti alle tradizioni della Valnerina sono tratti da “Il ciclo dei mesi – Tra Cielo e Terra” di Mario Polia.
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