Il mistero femminile di febbraio svelato in Appennino
C’è una madre che vigila sull’Appennino, una grande madre. Lo fa da millenni, insieme a tante donne.
Nel giorno della Candelora di donne ne appaiono sei, di fila, dipinte sulla parete esterna di un’antica chiesa proprio sotto le montagne, nella Valle Umbra, dove risorgono le acque che s’inabissano negli altipiani di Colfiorito e scorrono quelle che precipitano nelle cascate di Pale.
Sei madonne colorate, una dietro l’altra, neanche fossero i manifesti elettorali di una volta. Ognuna ha il suo bambino in grembo; ne richiamano l’attenzione con il cardelllino o con la sfera, oppure con il semplice gesto delle mani.
Sono (Ma)donne bionde, bellissime, anche se graffiate e graffite, come dalle rughe del tempo. Hanno gli occhi grandi e chiari, aperti sul mistero della nascita e della creazione.
Sono immagini antiche; eppure prima di loro c’erano altre madri e altre donne, qui, in questo stesso luogo, o in altre cime d’Appennino, tra i boschi. Erano ugualmente belle, altrettanto forti e sacre.
A Colfiorito, innanzitutto, c’è Cubrar, la grande madre degli antichi Umbri e dei Piceni; Cupra che ha nel proprio nome la radice del verbo cupere, desiderare, forse il desiderio stesso della fertilità. Cupra la madre dei Plestini, matres pletinas, com’è scritto in caratteri arcaici su alcune piccole lamine bronzee rinvenute sull’altopiano.
Ma qui, forse proprio sotto le sei Madonne di Santa Maria di Pietrarossa, ci furono anche la Bona Dea e magari Giunone che con Diana era associata al nome di Lucina e che portava la luce ai bambini nascituri, sostenendo le donne nei dolori del parto.
Siamo nei giorni della Candelora, che ricorda la presentazione del neonato Gesù al tempio, che misura il tempo dal Natale, ovvero i quaranta giorni, la quarantena, durante la quale la donna che ha partorito è meglio che resti chiusa in casa per recuperare forze e salute dopo il miracolo faticoso della nascita.
Siamo anche nei giorni dei Lupercalia, quando i giovani romani si vestivano di pelli di lupo, uccidevano il capro, simbolo di virilità e con la sua pelle ridotta in strisce, frustavano le donne che offrivano il ventre per accrescere la propria fertilità.
Non è dunque certo per caso se in questi stessi giorni nei quali tutto sembra essere un’invocazione al mistero della nascita e alla magia compiuta dalla donna per dare alla luce un figlio, la natura stessa si risveglia restituendo la vita al mondo vegetale e animale.
Ecco allora che dopo il culmine del gelo invernale, ci sono finalmente i primi segni del ritorno della luce (aiutata anche dalle candele benedette della Candelora) e di una nuova fertilità degli animali, a cominciare dalle pecore.
Un mistero femminile è dunque quello di queste giornate di febbraio, il mese della purificazione, delle febbri (curate, come il mal di gola, da San Biagio festeggiato il 3 febbraio) e degli amori (celebrati con San Valentino il 14).
Così mentre l’eco di un lontanissimo senso del sacro e di un calendario che si accorda perfettamente con quello della natura sembra ormai essere perso nel traffico caotico delle pianure, il silenzio degli Appennini consente invece di udire la voce di Madonne e Sibille, donne, madri, incantatrici, dee, pastore e guerriere, ancora capaci di raccontare storie e svelare segreti semplici, come la neve che copre la piana di Castelluccio, nascondendo e proteggendo i semi delle lenticchie che nasceranno e fioriranno colorati in primavera.
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