Mandiamo al Governo gli Appennini
C’erano talmente tanti temi sul tavolo del possibile (o impossibile) nuovo Governo, che hanno quasi dimenticato l’Appennino. Tra debito, spread, immigrazione, chi ha parlato delle montagne d’Italia? Praticamente nessuno. Eppure l’Appennino è un sistema montuoso lungo 1300 chilometri, l’asse, se non la spina dorsale, dell’intero Paese. Più di centomila chilometri quadrati sui 300mila totali dell’Italia, ma con appena quattro milioni d’abitanti. Grandi spazi vuoti, un enorme patrimonio naturale, culturale e sociale, piccoli centri in via di spopolamento. Un grande problema, o una grande risorsa. In ogni caso una grande parte del nostro Paese, della sua storia e magari del suo futuro.
Territori che qualcuno da tempo ha iniziato a definire marginali. E anche nel contratto di governo tra Lega e M5S un po’ marginali lo sono stati. Nel documento c’era un timido e vago cenno all’Italia di montagna, che comprende, naturalmente non solo gli Appennini, ma anche l’intero arco alpino. Al punto 4 relativo all’ambiente e alla green economy è scritto che “Particolare attenzione anche in sede UE verrà prestata ad innescare e favorire processi di sviluppo economico sostenibili, basati soprattutto su innovazione, start up e impresa giovanile, anche nelle aree montane, che pur rappresentando una quota territoriale significativa del Paese ed essendo ricche di risorse naturali e culturali, sono gravate da ritardo di sviluppo, spopolamento e invecchiamento della popolazione con conseguente degrado ambientale e fenomeni di dissesto”. Non molto. Non molto originale. Non mirato nello specifico all’Appennino. Comunque qualcosa.
Ma qualcosa in più e – potenzialmente – più concreto era stato fatto in precedenza con il varo della Strategia Nazionale Aree Interne da parte dell’Agenzia per la Coesione Territoriale. Anche qui non si parla specificamente di Appennini.
“Le Aree Interne rappresentano una parte ampia del Paese – circa tre quinti del territorio e poco meno di un quarto della popolazione – assai diversificata al proprio interno, distante da grandi centri di agglomerazione e di servizio e con traiettorie di sviluppo instabili ma tuttavia dotata di risorse che mancano alle aree centrali, con problemi demografici ma anche fortemente policentrica e con forte potenziale di attrazione”.
L’Italia, nel Piano Nazionale di Riforma (PNR), ha adottato una strategia per contrastare la caduta demografica e rilanciare lo sviluppo e i servizi di queste aree attraverso fondi ordinari della Legge di Stabilità e i fondi comunitari. Il valore degli interventi dovrebbe essere complessivamente di 71 milioni di euro di finanziamenti statali e 250 milioni da attivare sui POR Fesr e sul Fse e su altri fondi europei.
“…al 31 gennaio 2018 tutte le 48 aree che hanno avuto copertura finanziaria con le leggi di stabilità 2014, 2015 e 2016 hanno approvato una “Bozza di Strategia”, in 35 aree è definito anche il “Preliminare alla definizione della Strategia d’area”, mentre in 19 aree si è chiuso il percorso di co-progettazione con l’approvazione della “Strategia d’area”. Per sette aree interne (Alta Valtellina, Valchiavenna, Appennino Basso Pesarese e Anconetano, Alta Irpinia, Basso Sangro-Trigno, Valli dell’Antola e del Tigullio, Casentino-Valtiberina) è stata avviata, con la firma dell’Accordo di Programma Quadro, la fase attuativa della Strategia d’area. Altre otto aree hanno poi raggiunto la fase finale del processo Bassa Valle (Val d’Aosta), Sud Ovest Orvietano, Montagna Materana, Matese, Alta Marmilla, Madonie, Valli Maira e Grana e Alta Carnia”.
Si parla di sostegno a progetti nei settori dell’agricoltura, dell’artigianato, del turismo. Ma soprattutto del miglioramento e dell’ammodernamento dei servizi: istruzione, sanità e viabilità.
Ma le premesse sono più ampie, lasciano respirare, come in montagna, appunto.
“Per la costruzione di una strategia di sviluppo economico per le Aree interne questo rapporto parte dal “capitale territoriale” inutilizzato presente in questi territori: il capitale naturale, culturale e cognitivo, l’energia sociale della popolazione locale e dei potenziali residenti, i sistemi produttivi (agricoli, turistici, manifatturieri)”.
“Le politiche di sviluppo locale sono, in primo luogo, politiche di attivazione del capitale latente”.
Capitale territoriale, capitale naturale, culturale e cognitivo; l’energia sociale di chi vive le aree interne dell’Appennino. Ecco, forse per mandare gli Appennini al Governo si può partire proprio da qui. Ma non basta.
Occorre un altro salto culturale, far sì che questi territori “liberi” possano essere anche la sede ideale per un nuovo modello di vita, che va studiato, sperimentato, sostenuto, provato. Un modello che si ricolleghi al vissuto delle comunità appenniniche (al capitale culturale e cognitivo) e al loro rapporto con il territorio e con il paesaggio (con il capitale territoriale e naturale).
Per nuovi e antichi abitanti il vivere in un Appennino con i servizi basici implementati e migliorati potrebbe voler dire confrontarsi con nuove forme di economia comunitaria (vedi le cooperative di comunità), di partecipazione nei piccoli borghi e di welfare comunitario in forma sussidiaria rispetto ai servizi pubblici.
Questo potrebbe essere il valore aggiunto del ritorno in Appennino, una nuova forma di governo dei territori, che lentamente, dovrebbe contribuire al ripopolamento e, chissà, a dare l’esempio come buona pratica anche per le aree non marginali. Riportando l’Appennino al Governo del Paese, almeno a livello culturale.
E se questo vi pare un sogno, e forse lo è, per tornare alla realtà basti rileggere lo Studio sugli Appennini di Slow Food e Ispra, non certo consolatorio. Eppure anche questo rapporto si chiude con una speranza: “Va finalmente riscritto un Patto tra il paese e la montagna, che rappresenta un grandissimo serbatoio di natura, paesaggio e cultura” e stili di vita.