Tartufi e predoni, una piccola guerra d’Appennino
Il tartufo figlio del fulmine di Giove, il tartufo afrodisiaco, principe della tavola, motore di una piccola economia e al centro di una concorrenza spietata. Oppure semplicemente il prodotto d’eccellenza dei nostri boschi che vanno rispettati e non predati. E’ un mondo a sé quello dei cavatori di tartufi, che sono tanti nell’Appennino centrale. Forse troppi. E non tutti la pensano allo stesso modo su come utilizzare il privilegio di poter raccogliere il prezioso tubero a pochi chilometri da casa.
Mario, ternano purosangue quasi cinquantenne, ha sempre bazzicato boschi e montagne, ma da qualche anno si occupa anche di tartufi, con regolare patentino ottenuto dopo l’esame con la Comunità Montana.
“La prima questione è che di tartufi nelle nostre zone ce ne sono sempre di meno. Quand’ero ragazzino c’era chi raccontava di raccolte memorabili, anche due quintali. A Borgo Rivo c’erano cavatori famosi, passati alla storia, come Pierino che saliva in montagna negli anni ’80 con la moto, con sopra i cani chiusi nella gabbia”.
La montagna sempre meno manutenuta anche per la scomparsa dei pastori, il proliferare dei cinghiali che hanno rotto gli equilibri naturali dei boschi e la siccità, sono tra le cause del calo nella quantità dei tartufi. Invece la ricerca del tubero, specie in occasione delle aperture stagionali, in particolare quella di maggio è spasmodica.
“Nei primi giorni c’è la folla”, dice Mario riferendosi alle zone con le tartufaie più conosciute del versante ternano dei Martani. Ai margini delle leccete, sotto le piante di ginepro. E’ lì che i cani annusano e indicano la presenza dei tartufi.
“Ci sono regole precise: non si possono portare più di due cani, il tartufo deve essere cavato dal cane e soprattutto non si può zappare tutto il terreno circostante, che comunque va ripristinato dopo l’estrazione del tartufo, per non compromettere la tartufaia”. Ma questo purtroppo non avviene quasi mai. “C’è un atteggiamento predatorio, molti vanno a tartufi per guadagnare il più possibile, prima possibile e non pensano che così distruggono le tartufaie e la possibilità di continuare a trovare i tartufi, oltre a non rispettare il bosco e la montagna: è un po’ il riflesso di quello che succede in città, vogliamo avere tutto e subito, ma non è questo il sistema naturale“.
Che qualcosa non vada nella raccolta dei tartufi lo conferma anche Fabrizio: lui le montagne le sorveglia ogni giorno come guardaboschi. “Sono molti purtroppo quelli che cavano i tartufi senza la giusta sensibilità. Spesso troviamo parti di terreno rotto con le zappe”. “Ci sono anche tartufari corretti – continua Fabrizio – ma altri non riescono a capire che se usi attrezzi agricoli invece che il fiuto dei cani, di fatto rendi infruttuose ampie zone di terreno che invece potrebbero dare molto in termini quantitativi e qualitativi”.
E poi ci sono le minacce e le azioni illegali di disturbo a “protezione” dei propri territori. “C’è chi lascia polpette avvelenate per uccidere i cani di possibili concorrenti“, dice Mario. “Arrivano persino a metterle sotto le ruote delle auto di chi si avventura in cerca di tartufi in territori non suoi”. Perché sotto le ruote? “Perché i cani, a fine battuta, arrivano per primi alla macchina per salire e tornare a casa e trovano i bocconi avvelenati senza che il padrone possa intervenire”. Una imperdonabile crudeltà nei confronti degli animali, ma anche un danno economico notevole, visto che un buon cane da tartufi può costare anche 6-7000 euro. Ma il tartufo ha un valore alto. Lo scorsone estivo e l’uncinato sono i più comuni e più commerciabili, si trovano a 100 e a 180 euro al chilo. Poi, più cari, ci sono il tartufo nero pregiato e il bianco, il tuber magnatum pico e il bianchetto. Normale che facciano gola a molti e non solo in tavola. Meno normale è che per averli si dimentichi di fare i conti con il rispetto della natura.
“Per noi Guardaboschi diventa una lotta impari: il territorio è vastissimo e a controllare siamo rimasti solo in due”, dice Fabrizio.
“Eppure la salvaguardia dell’ambiente e dei suoi equilibri dovrebbero essere un elemento culturale, specie se si comprende appieno la gratuità con la quale il nostro meraviglioso territorio ci mette a disposizione frutti così preziosi”.
Insomma il bosco d’Appennino non è una giungla, non può essere un luogo senza regole dove vige la legge del più furbo. Che poi – a conti fatti – tanto furbo non è.