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Le montagne russe d’Appennino

Un saliscendi tra alti e bassi. È naturale, siamo in montagna. Ma è un filo lungo, lunghissimo quello che passa per l’intero Appennino, e siccome va su e giù, come l’umore dei suoi ormai pochi abitanti, beh sì, è proprio un filo difficile da annodare: ci vorrà tempo e la pazienza di Penelope.

Cominciamo allora dall’alto. In questi caldi giorni d’estate migliaia di giovani hanno affollato l’altopiano di Colfiorito, proprio al centro delle nostre montagne. Hanno partecipato ad una grande festa di mezza estate, una festa celtica, certo, ma molto appenninica, perché senza il paesaggio dell’Appennino umbro-marchigiano, il festival di Montelago perderebbe i suoi orizzonti, le nuvole che si addensano sulle montagne, il verde dei prati che colorano la sua bandiera di libertà. La città nomade, una città di quasi ventimila anime cullate dalla musica, dall’amicizia e dalla birra, si monta e si smonta in pochi giorni, facendoci condividere il sogno che l’Appennino possa diventare di nuovo accogliente e attrattivo.
Ma poi basta scendere a Pieve Torina, a Pievebovigliana, a Visso, per attraversare altre città dove la provvisorietà è solo una maledizione. Sono i paesi distrutti dal terremoto del 2016, quelli con le S.A.E., con le soluzioni abitative in emergenza, di un’emergenza vissuta otto anni fa, ma che qui è ancora attuale. E se le gioiose tende di Montelago si smontano il 4 agosto, lo stesso non succede per le casette dei terremotati, che restano tutte lì ad aspettare un altro inverno. Intanto sul versante di Foligno le case di legno del terremoto precedente, quello del ‘96, sebbene finalmente svuotate dai loro abitanti provvisori, sono ancora lì, a ricordarci quanto questa catena montuosa apparentemente così salda sia destinata a ballare per intere ere geologiche.
Ecco allora: saltarelli e gighe sulla terra che trema e che salta. Sali e scendi, senza retorica, senza ironia; qui, da sempre la natura prende e la natura dà. E sia grazie alla Grande Madre Cupra, nonostante tutto.

Le tende del Montelago Celtic Festival

Poco più a Sud le montagne russe d’Appennino continuano nel glorioso Sannio dal nome dimenticato: nella terra di chi osò ribellarsi a Roma, in nome di un’altra Italia, dell’Italia appenninica, oggi qualcuno prova a rinominare quel Sannio diviso tra il Molise (la regione che non esiste, forse non per caso), la Campania e l’Abruzzo. Anche questo è un Appennino ferito, marginalizzato, preoccupato. Qui si parla dei possibili guai dell’autonomia differenziata, delle speculazioni delle pale eoliche, di sprechi, di banda larga e di strade troppo strette, di fantomatiche svolte green senza scuole e con gli ospedali che rotolano a valle, di PNRR e di pascoli abbandonati o peggio ancora affittati per loschi profitti. Così si guarda al passato più remoto per ritrovare la dignità e un po’ di forza, per ricordare i nomi dei luoghi e dei popoli che li nominarono. Per capire, in definitiva, se davanti ai magnifici e imponenti ruderi di Pietrabbondante con i suoi templi e il suo affascinante teatro, di fronte all’immenso paesaggio del Sannio segnato dai tratturi, il popolo dei Sanniti possa ancora essere popolo.

A Sepino (CB) si è parlato del futuro del Sannio

Così pensi alle “Otto Montagne” di Cognetti, all’atavica attrazione per il mondo selvatico, che prende e dà, pensi alle terre estreme, a un passaggio al bosco in Appennino, a un Thoreau nostrano, ma pensi soprattutto a chi ci sta provando, con cervello e cuore, a far pace con l’Appennino di oggi, ai giovani pastori che sentono la terra sulla quale camminano, che sanno interpretare la modernità e domare la rete per distribuire i loro prodotti ovunque, ma che poi non riescono a vincere le battaglie più insidiose, quelle contro tasse, burocrazie e campanilismi.

Pensi che le tradizioni e le feste dei nostri bisnonni fino a cent’anni fa erano bellissime, ma pensi anche che invece già allora su queste montagne difficili in molti si sentivano “A casa d’altri”, come i contadini e i pastori dell’Appennino reggiano, raccontati senza retorica da Silvio D’Arzo, che si lasciavano vivere in esistenze grame, simili alla vita delle capre e che per anticipare un po’ la morte, per ammazzarsi, dovevano trovare la forza di chiedere il permesso al prete del paese.

Pensi a un’altra capra, l’affascinante Gurù del capolavoro di Tommaso Landolfi, “La pietra lunare”, capra-mannara dei Monti Aurunci, ragazza di paese un po’ maga, un po’ ninfa, non diversa dalla Tina, strìa, ragazzina segnata e sensibile e poi signora dei boschi della Ladinia, personaggio del recente libro di Matteo Righetto, che non per caso s’intitola “Il sentiero selvatico”.

Pensi a un’Appennino che crolla, dimenticato, disabitato, sfruttato e maltrattato e a un’Appennino che invece è un’idea, un’ispirazione, un sogno, un soffio di bellezza sopra la palude, una magia, una teofania, un’anima, un genius, una guida, una miniera di cultura, di tradizione e di libertà, che non si può e non si deve mai dimenticare anche se non lo si vive più, da dentro.
Pensi a un’Appennino che va su e giù, inevitabilmente, e chissà per quanto tempo lo farà ancora. E pensi che bisognerà imparare a cavalcarlo, o a ballarci insieme.

Il parco archeologico di Sepino (CB)

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