Una Primavera umbra, tra Zolfo e Mercurio
L’acqua che ribolle ma resta fredda, l’odore di zolfo dalla terra e le aurore boreali nei cieli del Sud. La linfa che spinge il nuovo verde nei germogli e Persefone che è più forte delle tempeste solari, del riscaldamento e dei raffreddamenti, dei virus e delle connessioni permanenti e neurali. Primavera comunque viene, sulle nostre montagne e sulle nostre colline, con le sue meraviglie. Le meraviglie della natura e della sua forza creatrice e distruttrice.
Come sempre è sufficiente camminare per andare incontro a misteri che non sono eleusini, ma caserecci, infiniti e perenni.
La memoria dell’acqua è talmente profonda da farle ritrovare sempre una via per tornare in superficie, come Persefone che torna puntuale dal regno di Ade, grazie a un miracolo della normalità. Così la solfatara di Casigliano, in mezzo alla dolcezza melliflua (tanto è colma di fiori e di api) della più bella campagna umbra, con il suo olezzo sulfureo percepibile a distanza che sovrasta i profumi delle ginestre e dei biancospini, ci ricorda che esiste anche un mondo di sotto. Che esistono altri mondi, tutti insieme.
Questa polla, già nota nel Settecento e nell’Ottocento, più volte ricoperta, anche di recente, da mezzi meccanici poco propensi a manovre irrazionali, è una delle piccole dimostrazioni, dei portentosi trucchi tra i quali si nasconde la forza della natura. Il nume se la gioca qui, nel bel mezzo dell’armonia del cambiamento ciclico e stagionale, tra campi coltivati, paesi che fanno paesaggio, castellacci e rocchette, campanili e boschi rinselvatichiti frequentati da cinghiali e da lupi per niente cattivi, forse eredi di quello addomesticato dal santo stregone di Assisi.
Intorno a questa pozza gorgogliante che squarcia con le sue argille grigie il verde prorompente del grano di maggio e del rigoglioso favino, è difficile immaginare ninfe e baccanali. Magari di notte qui si radunano altri esseri fatati che non è bene nominare, come quelli che intorno all’altra solfatara di Montenero si prendono il respiro degli uccelli lasciandoli privi di vita e d’anima, sui bordi della pozza.
La solfatara uccide, con il suo alito, e cura con la sua essenza che emerge dalle viscere della terra. Oggi non lo sa quasi nessuno, ma per secoli i semplici pastori lo sapevano: per curare il loro gregge, per curare le malattie delle pecore, per lavare il vello prima della tosatura, non c’era di meglio che un bagno a mollo nella solfatara. Qui, d’altronde, transitavano le greggi della piccola transumanza dall’Alta Valnerina, per i Martani, fino a stazionare a Santa Maria in Pantano, vicino a un’altra solfonara (oggi ricordata da un toponimo) e poi verso la Maremma.
Altrove questo ribollire d’acqua sulfurea ha fatto tremare e fantasticare, ha evocato immagini divine, spaventose e rispettate, come la dea Mefite, nell’alta Irpinia, nelle terre dell’Ansanto. Anche lì uomini e animali morivano e si curavano nel nome di un nume, nella meraviglia di un portento naturale.
Così quest’odore di zolfo nel maggio sacro e profumato della campagna umbra, assomiglia a quello delle radici delle nostre montagne; è il ricordo olfattivo di quel magma e di quella forza, del fuoco che le ha mosse e le ha create ed è meraviglioso pensare che ancora la terra se ne nutra, gli animali se ne possano curare e gli uomini berlo ed essere tutt’uno con le radici, anche se hanno un odore difficile da digerire. Come tutte le radici che rischiano di marcire. Ma qui tra i segreti evidenti, in effetti lo zolfo appare per quel che è: complementare al mercurio delle primavere.
,(Musica di Marco Baccarelli)