Mefite, la dea dell’Irpinia selvatica: al di là del bene e del male
Nevica in Irpinia a novembre. Nevica copiosamente per tutta la serata, ma di notte la casa che ci ospita è fin troppo calda. Così all’alba apriamo la finestra per sentire l’aria, rinfrescarci e vedere i tetti delle case, le colline e i monti coperti di bianco illuminati dai primi raggi del sole che sorge in un cielo tornato sereno. Con l’aria fresca entra in camera una zaffata di zolfo che riempie il naso.
“Avete sentito la mefite? È forte quando cambia il tempo!”, ci dice a colazione la padrona di casa.
La dea ha bussato alla finestra. Quasi inevitabile, visto che siamo venuti fin qua anche per incontrarla.
Siamo a Villamaina accanto alla valle d’Ansanto, luogo di leggende, di potenze numinose e di storie da studiare. Ma quell’odore forte vale più di cento libri, perché l’Appennino è una terra che prima si studia coi piedi, camminandoci, e s’annusa con il naso: poi ti entra nell’anima.
Così quel lezzo di zolfo, di uova marce, per chi viene dalle montagne di mezzo non è puzza, ma il segnale di un luogo portentoso.
Come a Cotilia, nell’ombelico d’Italia, nella terra dei Sabini. Da bambino c’andavo in treno con mio padre per accompagnarlo a fare le inalazioni alle terme. Sceso alla stazione storcevo il naso per il cattivo odore, ma poi spalancavo gli occhi dallo stupore guardando le acque bianche nelle pozze, sacre alla dea Vacuna, grande madre appenninica, antica e misteriosa come Mefite.
Come quando si cammina lungo il nostro fiume, il “bianco” Nera, che collega i Sibillini con il Tevere e l’Appennino con Roma. Anche qui l’olfatto ti avverte quando arrivi a Triponzo, alle sue terme, alle vasche d’acqua dove il Nahar, che forse vuol dire zolfo, si fa ancora più bianco, ti entra nel naso ed era capace di curare con l’aiuto dei Santi nel Medio Evo, o con quello degli dèi prima ancora; della fede nella natura, sempre.
In Irpinia l’odore della dea Mefite, che ci aspetta, è ancora più sfuggente, pericoloso, nocivo e invisibile come un gas. Mefite risiede tra Villamaina e Rocca San Felice in un grande stagno di fango mosso dalle esalazioni dell’acido solfidrico e dell’anidride carbonica. Non ha bisogno di un tempio, perché è una dea delle profondità. Come tutte le potenze della natura le piace manifestarsi in maniera spettacolare; a noi l’onere di riconoscerne il significato e rispettarne la forza, perché la Mefite è un nume che rappresenta in pieno l’archetipo della δύναμις distruttrice e creatrice: una dea che con le sue esalazioni mefitiche può uccidere uomini e animali, ma con i suoi fanghi può curarli.
D’altronde la padrona di casa ci aveva avvertiti: “State attenti, io una volta con gli amici mi sono avvicinata troppo per vedere se l’acqua era ghiacciata e a momenti svengo: mi hanno tenuta per le braccia”. Però poi ci dice che un suo parente emigrato, ogni volta che torna qui fa scorta di fanghi che servono per curare la pelle dei suoi figli come nessun altro medicinale. E soprattutto ci racconta del nonno che nelle acque della Mefite ci portava le pecore malate di brucellosi che poi guarivano. “Ma quando tornava a casa…che puzza i suoi vestiti!”.
Raggiungiamo la pozza quando il sole è già alto con in mente i versi di Virgilio dedicati alla valle d’Ansanto (1) e a questa straordinaria porta dell’Averno. La pozza ribolle e borbotta in mezzo alla neve che ancora non si è sciolta del tutto, ma l’inquietudine che trasmette con il suo movimento perenne, con il suo colore sinistro, con il suo contorno lunare e desolato (i gas non permettono alla vegetazione di svilupparsi come altrove) è mitigata, quasi annullata, dall’armonia del contesto: il paesaggio dell’Irpinia, dell’Appennino sannitico colorato di verde, a perdita d’occhio, amplissimo tra le lontane cime del Matese e quella del monte Terminio.
Questa è l’altra faccia della Mefite: caos e armonia, profondità e vastità, bellezza e orrido, vita e morte, cura e malattia. Perfino a pochi metri dalla pozza sui pendii inariditi dai gas mefitici, il celebre botanico Giovanni Gussone scoprì una ginestra speciale e unica (Genista anxantica) capace di contrapporre la sua potenza vegetale a quella ctonia di Mefite. Perfino i pastori che pascolano le greggi qui intorno sono riusciti a produrre un particolare pecorino dal sapore sulfureo, il Carmasciano.
Così Mefite è una dea al di là del bene e del male e c’insegna che ogni cosa che viene distrutta può essere ricreata. E anche la santa che ne ha preso il posto, qui sul colle appena sopra il suo stagno, Santa Felicita, ne ha ereditato i caratteri: Grande Madre, mater prolifica, ha avuto sette figli, il primo dei quali si chiamava Silvanus, come il dio dei boschi, ma ne ha dovuto vedere la morte in un martirio che assomigliava a una strage degli innocenti.
Così, se vuoi, qui puoi vedere tutto, come dalle terrazze di Villamaina, o dal belvedere di Frigento, uno dei paesi più alti di quest’Irpinia selvatica, meravigliosa e autentica come i suoi hirpi-lupi.
Qui puoi anche vedere come l’Appennino degli odori, dello zolfo, delle acque bianche come il latte delle sue grandi madri e delle potenze della natura nascoste, pure quelle che generano i terremoti, sia in realtà una patria verticale dal Nord al Sud, dove, se li sai riconoscere, i fenomeni della natura, le leggende, i miracoli, o le mirabilie ti raccontano sempre la stessa storia.
Così proprio qui, dove distruzione e creazione hanno confini labili, pensi che anche l’Appennino spopolato e abbandonato possa rinascere. Basterebbe far pace con Mefite e offrirle gentilmente un ex voto, chiedendo che l’Appennino del futuro sia migliore di quello del passato. Ma che non dimentichi mai i suoi Numi e i suoi Lari.
(1) “Est locus Italiae medio sub montibus altis,
nobilis et fama multis memoratus in oris,
Amsancti valles; densis hunc frondibus atrum 565
urget utrimque latus nemoris, medioque fragosus
dat sonitum saxis et torto vertice torrens.
hic specus horrendum et saevi spiracula Ditis
monstrantur, ruptoque ingens Acheronte vorago
pestiferas aperit fauces, quis condita Erinys, 570
invisum numen, terras caelumque levabat”…
“C’è un posto nel mezzo dell’Italia sotto alti monti,
nobile e celebrato per fama in molte contrade,
la valle di Ansanto: questo luogo è chiuso da entrambi i lati
da nereggianti pendici boscose e in mezzo un fragoroso torrente
fa rumore per i sassi e per il tortuoso vortice.
Qui si mostrano un’orribile spelonca e gli spiragli dell’implacabile Dite,
e dallo squarciato Acheronte (Averno) una grande voragine
spalanca le pestifere fauci; qui si gettò l’odioso nume
della crudele e spaventosa Erinni e disappestò terre e cielo”.
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