Andar per boschi
Andare per boschi è come navigare il mare: significa confrontarsi con la profondità, oltre che con l’ampiezza. Anche con la nostra profondità. Significa confrontarsi con la Dynamis, con la forza della natura, che trasforma, distrugge e rigenera. Il bosco, come giustamente scrive Giovanni Sessa è, per antonomasia, custode di ogni “possibile”, visibile e invisibile. Come il mare, è un luogo dove la natura si manifesta nella sua forza primigenia. Così la potenza immaginale che si coglie nell’attraversamento di un bosco, solo ad essere desti e con i sensi aperti, è enorme. E arriva da lontano, da molto lontano.
Camminare in una faggeta. C’è stato un tempo nel quale tutto l’Appennino era coperto di selve, un bosco immenso era sull’intera Italia e su buona parte d’Europa. Iniziava una convivenza difficile e dura tra gli uomini e gli alberi. Servivano spazi liberi, radure per coltivare, legna da ardere, legname per costruire ricoveri, carbone per scaldarsi. E poi frutti, funghi, radici, bacche. Uomini e donne lavoravano nei boschi e mentre si saliva, accompagnando gli animali o cacciandoli, si attraversavano selve fittissime, quasi inestricabili labirinti vegetali. Fino a intravedere di nuovo la luce, l’azzurro del cielo, le stelle di notte, in un bosco più aperto e pulito, tra alberi alti come giganti.
Siamo in una grande faggeta, intorno ai mille metri d’altitudine. Attraversarla apre il cuore alla speranza e l’anima a pensieri più lievi. Forse è una memoria senza ricordo che conserviamo nel nostro inconscio a darci quiete nelle faggete.
In un paesaggio invernale in bianco e nero, i tronchi dei faggi sembrano grandi pilastri che affondano nella neve e s’innalzano a reggere il cielo grigio. In primavera e in estate sono colonne altissime a sostegno di una volta verde (colorata in autunno), ma aperta alla luce, capace di filtrare i raggi del sole e scomporli, come in un caleidoscopio…come nelle grandi vetrate delle cattedrali gotiche, concepite, progettate, nate ad imitazione delle faggete. Come nei templi più antichi dove le colonne di pietra sostituirono i tronchi, quando le radure di montagna sembrarono non bastare più alla celebrazione dei riti. Come nelle nostre semplici pievi appenniniche che incontriamo alla fine del sentiero, che confermano e sottolineano, con le loro aure, quelle dei boschi appena traversati.
Il bosco è stato il luogo incantato, il luogo del mito: di Artemide e Atteone, di Numa e Egeria, delle ninfe, delle fate e delle streghe, delle favole antiche e moderne, della nostalgia della selvaticità, come nella storia di Masha e Orso; dei geni degli alberi ne “Il bosco vecchio” di Buzzati; della ribellione ad una società che si allontana dai canoni naturali come – seppur in modi diversi – in Junger e in Thoreau. Il bosco è il luogo in cui perdersi per ritrovarsi, come in Herman Hesse, è il luogo romantico per eccellenza, miniera e riserva di tutte le tradizioni popolari e orali, custode di simboli e archetipi, come per i fratelli Grimm, o per il movimento giovanile dei Wandervogel all’inizio del Novecento; è dimora di chi si sente signore di tutto e padrone di nulla, come il Tom Bombadil di Tolkien; di alberi animati, come gli Ent, e di popoli che vivono in simbiosi con le forze magiche della natura, come gli elfi.
Camminare in una lecceta. Il leccio, o l’elce, è un albero sempreverde, ma cupo. Così tra i lecci secolari o tra i giovani lecci dei boschi cedui, non si cammina allegri, ma sempre con rispetto, perché le leccete sono la sostanza stessa degli Appennini. Il loro fogliame fitto nasconde la vita del bosco; tra i tronchi scuri ci aspettiamo di vedere uscire un cinghiale da un momento all’altro; oppure un’istrice, una volpe, un’upupa, preceduti e annunciati da un fruscio improvviso. Il bosco fitto nasconde presenze, genera inquietudine, folletti e dèi. Eppure, più prosaicamente, ci gioviamo dell’ombra dei lecci nelle sudate salite estive e il loro verde, seppure cupo, ci rende più facile auspicare il ritorno della primavera in inverno. Tra i lecci camminiamo a casa nostra: sono gli alberi più antichi, sacri ai popoli della Prima Italia; nel lucus, dove era proibito tagliare la legna, sotto i lecci, si conservavano iscrizioni antichissime, come quella del Monteluco di Spoleto o del leggendario leccio del Vaticano ,a Roma, descritta da Plinio il Vecchio. I lecci, nella loro gentilezza, hanno riconosciuto quella di alcuni camminatori e per questo si narra che alcuni di loro si siano chinati al passaggio di San Francesco sulle montagne umbre e sabine. Difficile che succeda ancora oggi, ma è altrettanto difficile che si possa tornare da una passeggiata in una lecceta senza qualche idea nuova. E di questo occorre sempre ringraziare la gentilezza del cupo leccio.
Tra i boschi degli Appennini e ai loro margini sono nati la grande madre Cupra, signora della vegetazione e degli animali, Silvano e Fauno, figlio di Pico e Pomona, nipote di Marte o di Saturno, sposo della ninfa Marica e padre di Latino, a suo agio nelle selve, tra i campi e intorno alle greggi dell’Appennino umbro-sabino, citato in innumerevoli storie e leggende protagonista della letteratura, dell’arte e dell’immaginario occidentali: da Mallarmé a Rimbaud, da C.S. Lewis a Shakespeare, da Debussy fino ai più moderni videogiochi. E poi ancora i nostri boschi montani hanno ospitato l’incantatrice Angizia, capace di curare con le erbe, di creare veleni e antidoti, come una Morgana appenninica, antesignana della Sibilla, di ogni Sibilla, e infine l’enigmatica Gurù di Tommaso Landolfi, la giovane ragazza dei monti Ernici, affascinante e trasgressiva, quanto lunare e capace di trasformarsi perfino in capra mannara e onorare le grandi madri.
Camminare tra i castagni. Se lo si fa a fine settembre, magari proprio il 29 nel giorno di San Michele, s’inizieranno a trovare i frutti maturi. Questa era una delle date spartiacque nella civiltà rurale, quando le greggi rientravano dalle transumanze e s’iniziava a metter via il cibo per l’inverno. I castagneti ricoprivano e ricoprono ampie zone d’Appennino e ne hanno segnato gli usi e le tradizioni gastronomiche. Il lavoro nel bosco non è come quello in mezzo ai campi a falciare il grano sotto il sole. Le castagne, i funghi, le bacche e perfino la legna da ardere si raccolgono come fosse una sottrazione ai boschi, da fare con riconoscenza e gentilezza, senza litigare con gli alberi e il loro mondo, con i loro geni. Portar via i frutti del bosco non è come prendersi ciò che si è seminato e coltivato. Perciò nel castagneto, tra i giganti dalle foglie seghettate si cammina con rispetto. E il rito del metato che sopravvive nell’Appennino del Nord, con la comunità del paese che si ritrova nell’edificio adibito ad essiccare le castagne, a vegliare per giorni il fuoco che non brucia sotto le castagne nuove, appare come un ultimo omaggio a questi frutti che sfamano e al bosco che li ha prodotti per noi. E ai quali si può finalmente brindare per San Martino.
Così è e così è giusto che sia: il bosco, come il mare, resta tra i pochi luoghi veri, autentico in quanto selvatico, che è ancora possibile attraversare in questo mondo. In quest’Appennino che torna ad essere incolto, che si sta di nuovo ricoprendo di selve, in mezzo a un’Italia sempre più connessa con il mondo digitale del calcolo per lucro e sempre più disconnessa dal mondo delle analogie e dell’immaginazione, del cosmo e della natura.
Ma dove i nostri antenati hanno scorto la luce tra il fogliame fittissimo, con le apparizioni di Diana e Lucina, oggi possiamo tornare a camminare per cercare un ponte verso un futuro che non dimentichi le connessioni con gli altri esseri viventi del nostro pianeta, quelli più antichi innanzitutto: gli alberi, partecipi del nostro stesso mistero. Non a caso il bastone di Demetra e le bacchette magiche delle fate sono di legno, all’interno del quale è passata l’energia creatrice.
Camminare tra le querce. I grandi boschi di querce d’Appennino sono solo un ricordo, ma la quercia produttrice della ghianda sacra a Giove, resta l’albero più imponente e rispettabile delle nostre montagne, che quando l’incontri quasi d’istinto ti vien voglia di carezzarlo sulla corteccia rugosa per condividere un po’ della sua energia. Lungo le strade di campagna, ai piedi delle montagne di mezzo, s’incontrano filari di querce superstiti dei grandi boschi che la saggezza e il buon senso rurale hanno ben pensato di risparmiare in cambio dell’ombra che questi giganti concedono ai viandanti, siano essi uomini e animali. Così un filare di querce in mezzo alla campagna indica di certo un’antica viabilità. Ma ancor più affascinanti sono le querce isolate lasciate in mezzo ai campi, per dare ombra e riposo ai mietitori e alle bestie nella calura estiva. La quercia non serba rancore all’uomo e alla sua scure. Dalla sua ha i secoli e la potenza dei suoi semi.
Così l’ombra dei boschi non crea oscurità, ma genera analogie, ritempra l’immaginazione e riconcilia l’uomo con il mondo vegetale, con la sua potenza, con la sua saggezza.