Le meraviglie della natura
Dove dormirò questa sera? Non ha importanza. Cosa fa il mondo? Vengono trovati nuovi dèi, nuove leggi, nuove libertà? Non ha importanza. Ma che quassù ancora una primula fiorisca e una patina argentea rivesta le foglie, e che morbido il vento canti sommessamente giù in basso, tra i pioppi, e tra i miei occhi e il cielo un’ape dorata ondeggi e sussurri, questo ha importanza.
Herman Hesse
Heinrich Heine ne “Gli dèi in esilio” racconta del declino e della scomparsa degli antichi dèi greci, che però ricompaiono nella realtà di ogni giorno sotto mentite spoglie, usando travestimenti: Mercurio come un mercante olandese che affitta le barche dei marinai per trasportare le anime nell’Ade; Bacco come il frate cuciniere di un convento; Giove come un vecchio esiliato nell’isola dei conigli, insieme a un’aquila ormai spiumata e a una vecchia capra.
In un mondo che sembra non essere più capace di riconoscere le potenze divine, le loro immagini sono offuscate ma ancora presenti. Gli dèi possono cambiare forme, ma la dynamis e la natura restano sempre le stesse. E noi possiamo camminarci dentro facendo finta di niente, oppure…
Camminare. La meta è la cima di un monte preappenninico che conserva le rovine di un luogo di culto umbro e poi romano: la lettura dell’intenso “Icone del possibile” di Giovanni Sessa e l’esigenza di ritrovare il silenzio mi accompagnano nella salita, verso questa vetta che non è un luogo come gli altri.
Ogni luogo è diversamente carico di energia e, nella geografia sacra, ogni spazio non è omogeneo, né equivalente. Lo spazio sacro è connotato dalla presenza del suo genio
L’ultimo libro di Giovanni Sessa è un lungo e appassionante viaggio nel rapporto tra l’uomo e la natura, la physis, la causa prima, dai presocratici, passando per Spinoza, Bruno, Goethe, fino ai filosofi del Novecento, primo fra tutti Martin Heidegger, e ai pensatori contemporanei come Massimo Donà. Un viaggio che in alcuni tratti si fa labirintico, ma che segue delle pietre miliari, in cerca del cuore pulsante dell’essere, nella consapevolezza che solo una filosofia immaginale possa ricondurci alla visione dell’origine. Un viaggio che ci accompagna alla ricerca delle icone del possibile in alcuni luoghi aureati, come direbbe Elémire Zolla: i giardini, i boschi, le montagne.
“Dovunque ci si trovi si è sempre al centro della natura, coinvolti nella sua eterna danza, nell’eterno gioco delle metamorfosi dionisiache”.
Giovanni Sessa inizia l’ampio capitolo dedicato al bosco come icona del possibile, facendoci incontrare Artemide attraverso la narrazione del mito di Atteone. Il cacciatore intravede la dea nuda tra le fronde mentre si bagna nelle acque insieme alle sue ninfe portatrici di follia divina. Questa visione proibita ai normali intelletti svela ad Atteone la realtà ultima, che è anche la prima. Atteone viene per questo trasformato in cervo, ma non perde la consapevolezza. Torna nella natura a tal punto da essere sbranato dai suoi stessi cani. Così tutto si rovescia e tutto si trasforma a causa di una forza misteriosa che per un attimo si svela, che tutto regge e tutto distrugge, in una perenne metamorfosi.
Come diceva Roberto Calasso, bisogna essere capaci di cogliere Pan, bisogna saper riconoscere gli dèi passandoci vicino, perché l’invisibile è parte del visibile.
Nella salita verso quello che un tempo si chiamava il monte dell’Ara Maior, che oggi è Torre Maggiore, attraverso un bosco di faggi. Qui si può entrare in contatto con i geni del luogo, aprendo la propria percezione ai delicati misteri della vita vegetale, alla sottile connessione tra le radici degli alberi… come nei boschi di Thoreau, di Buzzati, di Zanzotto, di Ariosto, dei fratelli Grimm, di Junger…
Passato il bosco, ecco quella che secondo Giovanni Sessa è un’altra icona del possibile, ponte tra cielo e terra, la cima montana. La linea curva che sembra separare i prati sommitali dall’azzurro del cielo è in realtà un confine che non esiste, una linea che non divide, ma che anzi unisce physis e kosmos.
Chi frequentava questi stessi luoghi tremila anni fa lo sapeva, o lo intuiva in un modo molto diverso dal nostro.
Questa cima è una calamita, da sempre. Oggi, nonostante la fatica necessaria per arrivarci, è ancora frequentata, e non ha mai smesso di esserlo. Ci sono saliti gli àuguri umbri, che non avevano bisogno di un tetto e di colonne per incontrare il divino; i sacerdoti romani di chissà quale divinità, il Marte dei Martani, delle greggi e dei campi, Jupiter folgorante, Diana, Bona Dea, Cupra…
Nel Medio Evo sono arrivati fin quassù perfino Francesco d’Assisi e i suo frati, a cercare l’Altissimo; nel Rinascimento, in quel periodo in cui magia naturale e scienza s’incontravano nei borghi qui sotto, dell’Ara Maior scriveva il Duca d’Acquasparta Federico Cesi, il Linceo. Durante la dominazione pontificia qui, in queste terre longobarde, si raccontavano ancora storie di streghe, di sabba e di tesori in cima al monte.
Così ora è bello e forse anche giusto ascoltare quassù un’evocazione degli dèi di Roma. Ma è altrettanto bello che ognuno qui si rapporti con la physis e la potenza, senza la necessità di passare attraverso rituali che purtroppo non appartengono più alle nostre comunità. Magari lo si può fare – semplicemente – provando a sperimentare quell’apertura mentale che un tempo caratterizzava i nostri antenati, anche i più umili. Si trattava di accogliere sensazioni senza schermi culturali o intellettuali come li intendiamo ora, ma a livello di percezione, lasciando aperte le nostre porte su kosmos e physis.
Poi abbiamo costruito templi (la cui radice viene da temenos, tagliare) e le religioni, affinché quelle stesse porte della percezione troppo aperte non generassero follie.
L’Ara Maior oggi è di nuovo scoperchiata, il tempio è crollato da molti secoli, il tetto è scomparso, il taglio tra il dentro e il fuori non c’è più, ma c’è stato. Torniamo all’origine, avendo vissuto millenni di storia e di storie.
Ho avuto sempre una grande attrazione per i luoghi sacri privati delle loro coperture, per le rovine che mostrano di nuovo il cielo, in mezzo alla natura, palestre ideali per far nascere le parole giuste e il pensiero bello: kosmos, physis, logos.
Quando sei lì sopra, sull’Ara Maior, puoi provare a rovesciare tutto e pensare che tutto sia sottosopra, che la tua testa poggi nel cielo, nel kosmos e che i tuoi piedi sostengano la terra, nella physis.
Il logos mette in comunicazione questi mondi, convoca gli enti, nominandoli. Così fino a pensare che tutto questo immenso cielo sia nato da un seme, che abbia prodotto boschi-galassie e piante-pianeta. Che in questa straordinaria espansione siano sbocciati dei fiori. E che tu sia un nuovo seme di questi fiori nel quale tutto si contrae per poi espandersi di nuovo in una dynamis infinita…
Quando pensiamo all’Olimpo come l’icona delle montagne degli dèi, dovremmo pensare anche alle nostre montagne d’Appennino, dove la natura si è manifestata per quel che è, l’unica trascendenza a cui l’uomo possa aver accesso, come c’insegna Giovanni Sessa.
“Per principio animante le loro istituzioni religiose, gli Italici avevano avuto una intuizione naturalistica. Propendevano cioè per una venerazione del numinoso della divinità rivelantesi in tutte le manifestazioni della sua potenza, inclusa, fra queste, la vita, che si esprimeva nella perpetuità della famiglia e della gens. Avevano dunque un contatto con la realtà che non conosceva, nella comprensione di questa, né frattura, né contraddizione fra “essere” ed “esistere”, ma un continuo fluire della “presenza divina”.
Marco Pucciarini