Il silenzio del solstizio
L’odore del fumo, di legna bruciata e di bosco, che ti rimane addosso come un vestito: nobile è chi sa di bosco e di fiume…
La consapevolezza dell’utile inutilità di essere parte di un evento astronomico come il solstizio d’estate, ma anche – più semplicemente – di far parte di un’aurora, di un’alba, di attraversare una fioritura di elicriso, di raccogliere l’iperico per la prossima notte di San Giovanni. Condividere tutto con chi percorre sentieri forse differenti, forse no.
Finito il tempo di altri solstizi, ora è arrivato quello dell’ascolto del silenzio del cosmo. Le cime d’Appennino ne sono il tempio, di questo silenzio fragoroso, che ti rimbomba dentro quando si spengono tutte le altre voci e i rumori di fondo, inutili perlopiù.
Questo, qui in cima, era un tempio e resta un tempio. Il luogo ne conserva la funzione, al di là di ogni interpretazione archeologica o culturale, l’archetipo vi resiste, qualcuno direbbe il genio, qualcun altro il Nume.
Questo è il tempio/cima dove rielaborare i concetti del limite, del bisogno e dell’essenziale; il principio di responsabilità non solo individuale ma comunitario; di una comunità quindi, non di uno Stato. Di una comunità, cioè di un gruppo di persone nel quale, come in qualche modo sosteneva Adriano Olivetti, ognuno sia in grado d’intravedere il confine e l’identità, di condividere il limite, le regole e gli obiettivi, di averne consapevolezza, oltre la propria individualità.
Le filiere lunghe e infinite della globalizzazione vanno accorciate di molto, ormai lo dicono anche gli economisti. La visione, invece, va allargata: dall’individuo alla comunità, dal luogo al paesaggio, dal paesaggio all’ambiente, dall’ambiente al cosmo, rientrando nei confini del sacro da dove siamo usciti forse con troppa baldanza e che invece qui, in quest’alba appenninica, sono piuttosto evidenti, seppure apparentemente effimeri.
Così, mentre il sole, la nostra buona stella, raggiunge il suo massimo fulgore, per stazionare il tempo che basta a indurci una riflessione, la contemplazione del fenomeno dovrebbe aiutarci a capire che i problemi dell’ecologia non potranno essere risolti esclusivamente dall’economia, riguardando piuttosto, in generale, il nostro rapporto con l’essere. Nell’intersezione, che era e resta problematica, tra il tempo circolare disegnato dal sole e dalle sue due porte annuali e il tempo lineare che ci è concesso di vivere, occorre provare a recuperare una visione del mondo, cercare di costruire l’idea nuova e antichissima di una società aperta, ma sul modello di quelle tradizionali. Aperta innanzitutto alla consapevolezza della complessità dei fenomeni del cosmo nella sua interezza e ai loro misteri, che possono e devono tornare il metro delle nostre azioni, anche di quelle quotidiane.
Così, probabilmente, una semplice transizione ecologica con ministeri annessi, non sarà sufficiente a salvare il pianeta, come dicono loro. Saranno necessarie altre transizioni ed azioni, essenziali, semplici, misteriose come il sorgere del sole e limpide come le aurore: un cambio di prospettiva culturale.
Può darsi che i solstizi, con i loro silenzi nei quali tutto sembra fermarsi per concedere ai viandanti il tempo di interrogarsi, e le cime d’Appennino che ne sono il miglior osservatorio, servano dunque ancora qualcosa…
“Gli dèi abitano là dove sempre hanno abitato. Ma sulla terra si sono perdute certe indicazioni che si possedevano su quei luoghi”.
Roberto Calasso