Sui Monti Martani in cerca di una piccola patria
Parliamoci chiaro.
Qui non si tratta solo di camminare.
Qui si attraversa un mondo sconfitto, le sue rovine, il suo splendore e le sue miserie, quello che era, e quel che avrebbe potuto essere.
Poco più in là, oltre il bosco, c’è anche ciò che sarà; ma siccome non lo vediamo, possiamo solo provare a immaginarlo.
Qui si tratta di camminare in una piccola patria dimenticata: la nostra.
Qui si tratta di camminare tra i nostri dèi e i nostri lari, tra i nostri colori e i nostri profumi, che siano quello delle orchidee selvatiche, o l’odore del letame.
Camminare in un mondo sconfitto. Sulla nostra isola, un’isola che non c’è, ma che è reale come una roccia. Un’isola-montagna, circondata da un mare che non esiste, ma che talvolta si lascia immaginare.
In novembre – per esempio – è un mare di sbuffi, di nebbie gonfie e pesanti come nuvole cadute in terra. Altrimenti, in marzo, è un mare di un verde smeraldo, ondeggiante al vento come il grano appena spuntato; un mare mosso tutt’intorno, che poi si placa e vira al giallo-ocra in giugno e in agosto; infine torna in movimento e marrone, in ottobre, increstato dagli aratri.
Delle tre valli umbre, alle quali vogliono ancora dedicare una strada perforante, da quassù, dalla cima di quest’isola-montagna, ne abbracciamo con lo sguardo almeno due. La terza la immaginiamo soltanto, sotto i profili delle cime più alte della Valnerina.
Ma dai Martani lo sguardo è libero, fino al monte degli Irpi Sorani, il mitico Soratte, fino all’antico vulcano dell’Amiata, fino ai grandi massicci del Gran Sasso, della Laga, dei Sibillini e del Terminillo, fino alla Maiella e al monte Cucco…
Qui spesso si cammina non solo per spostarsi, ma per raggiungere un belvedere più in alto. Così si esercita lo sguardo in molti e diversi modi. Da dentro verso fuori, sul lontano da noi, sull’ampio, oppure sui particolari, sui monti stessi, sul passato remoto, sul futuro e dentro di noi. In ogni caso è uno sguardo che assottiglia l’io.
Qui siamo al centro. Siamo al centro dell’Umbria, dell’Italia, dell’Appennino, del Mediterraneo. Forse, e con un po’ d’impegno, potremmo essere anche al centro di noi stessi.
Ecco. Il fatto è che per camminare quassù spesso bisognerebbe avere due volti, come il buon padre Giano, il dio degli inizi. Un volto che guarda al passato e uno al futuro. Col terzo volto, quello che non si vede, fisso nel presente inafferrabile, sfuggente ma concreto. Bisognerebbe salire come Marte, lancia in pugno, per difendere quel che resta, ovvero il luogo; bisognerebbe cercare le tracce della propria comunità, tanto cara al terzo dio della triade umbra, Vofione/Quirino; onorare il dio ordinatore Saturno e ritrovarlo nelle tracce lasciate nel paesaggio, più o meno come Francesco d’Assisi ritrovava, sempre qui, tra i nostri boschi, l’Altissimo e Bon Signore.
Bisognerebbe, come lui, comprendere di nuovo la lingua degli uccelli e, come un augure, interpretare il canto dell’upupa e i versi del picchio verde; esplorare i boschi di faggi e di lecci in cerca di Fauno e Lucina, delle loro fonti, delle radure trafitte dai raggi del sole, delle erbe selvatiche e salvifiche e degli animali sacri.
Bisognerebbe cioè ritrovare gli dèi delle origini, ovvero percepire la divinità così come – semplicemente e quasi priva di mediazione – è apparsa all’alba della storia proprio tra queste montagne, piccole, ma speciali e centrali. E da qui ripartire per un nuovo viaggio.
Che ci crediate o no, sui monti Martani, ci sono sentieri che possono aiutare a cercare tutto questo e – se volete – potete provare a percorrerli.