E se l’Appennino ripartisse in treno?
A cura di Luca Onofri
E45. Bastano una lettera ed un numero per evocare un’odissea stradale fatta di buche, restringimenti e cantieri stradali perennemente attivi. Eppure la tristemente nota superstrada che collega Ravenna a Roma non è solo questo. Essa rappresenta anche e soprattutto il fallimento di un modello di viabilità appenninica che non solo non è risultata ad oggi funzionale, ma che non è nemmeno stato in grado di rallentare lo spopolamento creando lavoro e servizi. A fronte di chi ancora oggi invoca improbabili progetti in stile anni ’50 dietro lo slogan “Una superstrada per ogni valle”, se compiamo un salto indietro di un secolo una soluzione per l’Appennino può fornircela un passato nemmeno troppo lontano.
Fra Ottocento e Novecento fu progettata e iniziata la costruzione della Ferrovia Subappennina, una linea che, partendo da Santarcagelo di Romagna, avrebbe attraversato il Montefeltro, giungendo ad Urbino, e di qui sarebbe proseguita sino a Fabriano. I lavori iniziarono, ma non furono mai completati, in particolare non fu mai unito il tratto romagnolo, terminante a San Leo (RN), a quello marchigiano, iniziante ad Auditore-Casinina (PU). Così l’idea fu abbandonata dopo il primo conflitto mondiale e il progetto naufragò, lasciando i suoi relitti, ponti diroccati, caselli abbandonati, stazioni in decadenza, ancor oggi visibili. Solo alcuni tratti furono mantenuti attivi più a lungo, ma con poche corse.
Di fronte ai disagi della viabilità stradale, allo spopolamento che essa non è riuscita ad arginare e ai problemi ambientali, che ruolo può avere oggi la ferrovia per l’Appennino? Probabilmente un ruolo molto più grande di quello che normalmente le attribuiamo. La ferrovia oggi rappresenta non soltanto un servizio efficiente (se ben gestito) ed ecologico, ma essa è anche un’arteria d’acciaio che può portare linfa vitale alle comunità dell’Appennino. Sì, perché viaggiare in treno significa viaggiare in compagnia, significa conoscere, socializzare e ricreare quella rete di relazioni umane che lo spopolamento ha distrutto. Una stazione, per un paese di montagna, è una porta che lo mette in comunicazione con infiniti contesti, è un punto di ritrovo e di riferimento, un simbolo per dire che gli abitanti dell’Appennino non sono abbandonati a sé stessi. Una ferrovia è un modo ecologico per incentivare un turismo di qualità, per far conoscere le bellezze di un territorio senza i disagi del traffico e i problemi di inquinamento.
Tutto ciò oggi rende la Ferrovia Subappennina un progetto attuale più che mai. Oltre ai vantaggi già discussi, essa sarebbe di vitale importanza per Urbino, città universitaria nella quale gli studenti devono arrivare con lunghi e rocamboleschi cambi di mezzo. Anche dalla Romagna (ebbene sì, non tutti gli studenti romagnoli scelgono l’iperconnessa Bologna per la loro formazione universitaria). La Subappennina rappresenterebbe così una possibilità per far assumere nuovamente alla città ducale quel ruolo di capitale culturale dell’Appennino, che rivestiva ai tempi del duca Federico di Montefeltro.
Proprio di recente parte del tracciato ha suscitato nuovo interesse. Da settembre 2021 è stato riattivato, in vista di una vera e propria riapertura per il prossimo anno, il tratto Fabriano-Pergola con scopo ad ora prevalentemente turistico. L’auspicio è che questa ferrovia, come altre nell’Appennino, inizi ad essere considerata anche come servizio per le comunità di montagna e come strumento per ripopolarle. Anche lo scrittore urbinate Paolo Volponi (1924-1994), in un articolo apparso sul Corriere della Sera il 21 febbraio 1982, riteneva importante riprendere il progetto della Subappennina, notando che “Una linea del genere razionalizzerebbe tutta la rete ferroviaria nei tratti verso Roma; tanto è vero che adesso [e ancora oggi dopo 40 anni] per recarvisi in treno dai centri della Romagna, una delle regioni più ricche e dinamiche del Paese, occorre andare a girare e a cambiare a Bologna o ad Ancona.”