Sul naturale desiderio di camminare verso la primavera…
“Quando aprile con le sue dolci piogge ha penetrato fino alla radice la siccità di marzo, impregnando ogni vena di quell’umore che ha la virtù di dar vita ai fiori, […] la gente è allora presa dal desiderio di mettersi in pellegrinaggio, e d’andare per contrade forestiere alla ricerca di lontani santuari variamente noti. “
Geoffrey Chaucer, I racconti di Canterbury
Sono tempi di partenze e di ripartenze questi. Ora, anzi, come non mai. Perché a star fermi si fa peccato. E forse ci si ammala pure.
Aprile d’altronde è il mese dell’affermazione della primavera, il secondo mese dell’anno romano, quello nel quale le giovani genti d’Appennino viaggiavano verso terre ignote nelle ancestrali primavere sacre che servivano a seminare i popoli nella prima Italia.
Come resistere allora a un genio così profondamente radicato nella nostra anima? Come resistervi dopo tanti mesi di prigionia?
Dunque ad aprile occorre partire: a piedi. E come sennò?
Qualcuno lo chiama trekking, qualcun altro cammino. In pochi lo chiamano col nome più audace: vagabondaggio. Ma è questa la vera essenza del camminare per giorni, in qualsiasi condizione atmosferica, con lo zaino pesante sulle spalle: non avere meta, perdersi. Perdersi i giorni oziosi, le mattinate in ufficio, i discorsi inutili, i rancori, le bassezze e le piccolezze della vita borghese. Perdersi per ritrovarsi sotto la pioggia, in un sentiero sconosciuto, verso un paese del quale non abbiamo mai prima pronunciato il nome e senza sapere chi ci accoglierà. Come il vagabondo di Herman Hesse, come il perdigiorno di von Eichendorff, come i placidi e temerari hobbit viaggiatori instancabili di Tolkien. O come un giovane uccello migratore, un Wandervogel.
Anche sui sentieri d’Appennino si può vagare senza cercare altra meta se non un altrove.
Il fatto è che il cammino in Appennino conduce spesso in territori marginali, dimenticati, poco osservati dall’occhio di chi ci governa e ci sorveglia.
Il fatto è che camminando si entra in una dimensione diversa, in quella normale. Perché il camminare è il gesto più naturale che ci sia per un essere umano. E l’attenzione di ciascuno di noi è tarata sulla velocità dei nostri passi, così come lo sono le nostre reazioni e le conseguenti riflessioni.
Il fatto è che il camminare evoca fatiche condivise e individuali, comunità e solitudine, ci rimette a contatto diretto con la terra, con i piedi per terra, e ci fa raggiungere quel che non speravamo di raggiungere con le nostre forze, a volte oltre le forze.
Il fatto è che il camminare ci consente di non guardare più l’orologio e ci concede, finalmente, il tempo per dimenticare il tempo, perché ci conduce dove non c’è il ticchettio delle lancette, ma solo il ritmo del respiro e quello dei passi.
Così le giornate trascorse camminando sono tra le poche degne di essere ricordate, le più gloriose…
Perciò se aprile porta con sé la voglia di camminare…occorre andare non importa fino a dove, ma verso….
Verso le montagne, per noi appenninici, e verso la parte più interna del Paese e di noi stessi, verso la primavera.
Verso i misteriosi Sibillini, nella quiete numinosa di Colfiorito e sugli altipiani di Montelago, verso l’arcaica inesistenza dei tratturi molisani, verso le asprezze abruzzesi, verso i boschi del Casentino e dell’Alpe della Luna, sulla grande madre Majella, sulla via dei Lombardi tra Sassalbo e Cerreto, nelle forre dell’apollineo Pollino, verso la contea ventosa dell’Alta Irpinia…
Verso…non importa dove, ma senza bisogno di guide e di segnali…
“Non fa nessuna differenza, salvo un piccolo particolare, che per me ad ogni modo è di massima importanza. Che io senta la vita guizzare in me, sia essa sulla lingua o nelle suole, sia nella voluttà o sia nel tormento, che la mia anima sia mobile e possa insinuarsi con cento giuochi della fantasia in cento forme, in parroci e viandanti, in cuoche e assassini, in fanciulli e animali, in particolare in uccelli ed anche in alberi, questo è essenziale, questo voglio e di questo ho bisogno per vivere, e se un giorno tutto questo non dovesse più essere, se la mia vita dovesse essere inquadrata nella cosiddetta “realtà”, allora preferirei morire”
Knulp, Herman Hesse