Le vie dei canti che passano in Appennino
Dall’altra parte del mondo, agli antipodi degli Appennini, in Australia, le vie dei canti sono quei sentieri invisibili che gli aborigeni chiamano “Orme degli Antenati”, oppure “Piste del Sogno”.
Secondo i miti aborigeni sulla creazione, alcune creature totemiche hanno percorso il continente nel “Tempo del Sogno”, cantando il nome delle cose e delle creature in cui si imbattevano, facendo così esistere il mondo.
“Si credeva che ogni antenato totemico, nel suo viaggio per tutto il paese, avesse sparso sulle proprie orme una scia di parole e di note musicali, e che queste Piste del Sogno fossero rimaste sulla terra come ‘vie’ di comunicazione fra le tribù più lontane”.
Così ci racconta, tra gli altri, Bruce Chatwin ne “Le vie dei Canti”.
Sulle nostre montagne, all’alba della storia, i popoli che per primi pronunciarono il nome d’Italia percorrevano anch’essi spazi sconfinati e sconosciuti. Erano guidati da un animale totemico, nelle primavere sacre, partendo dalla Sabina, dal lago di Cotilia e di Vacuna verso quelle che diventarono poi le loro nuove sedi.
Il picchio verde guidò i Piceni, il lupo gli Irpini, il toro i Sanniti…
Erano anche questi viaggi di scoperta e di creazione, durante i quali il dare nome ai luoghi serviva non solo a riconoscerli, a definirli, ma soprattutto a “crearli”, con la poesia, la ποίησις che significa propriamente il fare dal nulla (Plat., Symp., 205, b). Una creazione attraverso il logos che può ripetersi all’infinito, finché si ricordano i canti…
“Disse anche i nomi dei torrenti, dei santuari, dei villaggi e delle foreste. Così rivisse, alla fine di quella giornata, tutto il Pago del Toro Sacro. Le due valli e i suoi rilievi non furono più anonimi elementi di un qualsiasi paesaggio. Era stata restituita loro la vita della memoria. E la memoria di un popolo vive fino a quando sarà pronunciato anche uno solo dei nomi che esso ha dato ai monti e ai luoghi che ha abitato”.
Così scrive Nicola Mastronardi in “Viteliù, il nome della libertà”, romanzo storico sui Sanniti.
“La terra deve prima esistere come concetto mentale. Poi la si deve cantare. Solo allora si può dire che esiste”.”La filosofia degli aborigeni era legata alla terra. Era la terra che dava vita all’uomo; gli dava il nutrimento, il linguaggio e l’intelligenza, e quando lui moriva se lo riprendeva”. “Ferire la terra (…) è ferire te stesso, e se altri feriscono la terra, feriscono te. Il paese deve rimanere intatto, com’era al tempo del Sogno, quando gli Antenati col loro canto crearono il mondo”.
Bruce Chatwin, La via dei canti
Allora: riconoscere e tracciare una mappa dei luoghi sacri d’Appennino, una sorta di via dei canti italiana, un’autostrada dei luoghi incantati, dei sogni sognati, che passerebbe, senza viadotti e senza gallerie per l’intera dorsale appenninica. Da dove cominciare? Come orientarsi?
Le nostre vie dei canti sono, con ogni probabilità più difficili da seguire rispetto a quelle australiane. Perché il territorio degli Appennini è più complesso, più intricato, più boscoso, più movimentato, più animato. Perché le vie dei canti appenniniche sono stratificate: sopra un canto se n’è inserito un altro e non sempre se ne distinguono le parole, non sempre si riesce a capire quali siano quelle originarie e quali le successive.
In effetti le vie dei canti appenniniche sono sfuggenti quanto affascinanti, sono come l’ordito di una enorme tela fatta di fili di colori diversi che si ricompongono, a saperlo vedere, in un disegno armonioso.
Non c’è rimasto quasi nessuno che conosca questo canto appenninico. La nostra terra, da tempo, non ha più alcuno che la canti. Eppure…
Eppure a Cortigno, vicino Norcia, sotto i monti Sibillini, in una sera d’estate al crepuscolo, sotto una grande quercia formicosa, una giovane donna inginocchiata porge le braccia al tronco come al grembo di una grande madre. Più volte ripete un gesto che nella sua popolaresca teatralità appare rituale: sembra in effetti afferrare qualcosa che proviene dall’interno dell’albero. Ma nelle mani non le resta nulla, solo un’idea, una fantasia, un soffio, un sogno: di prendere in braccio un bambino, che lei non riesce ancora a concepire.
Dall’altra parte del mondo, lungo le vie dei canti della Grande Isola, una donna della tribù dei Warramunga, aborigena australiana, si avvicina anche lei ad una grande quercia formicosa. Apre le braccia per accogliere il sogno di un figlio, credendo – come le hanno raccontato gli antenati che lo spirito dei bambini, minuscolo come un granello di sabbia, viva dentro certe specie di alberi.
Le vie dei canti circondano il pianeta intero: iniziano sotto casa, sulle nostre montagne, oppure nel bush australiano e portano molto lontano e molto in alto. Basta aver voglia di ascoltarle…
Buongiorno, complimenti innanzitutto per il bellissimo articolo. Posso gentilmente chiedere a quale ricorrenza popolare è legato il rito di Cortigno?? Sono Umbro, di altra zona, ma conosco il territorio di Norcia molto bene avendoci lavorato per diversi anni e ho un ricordo bellissimo proprio di Cortigno, minuscolo paese perduto tra le cime dei Sibillini. Veramente un gioiello. Ignoravo però questa tradizione.
Grazie in anticipo!!
Emanuele
Grazie per i complimenti e soprattutto per condividere la passione per le nostre terre alte. Della quercia formicosa di Cortigno riferisce Mario Polia a seguito delle sue ricerche antropologiche in alta Valnerina, raccolte nei tre volumi di Tra terra e cielo. Curioso che la stessa o analoga tradizione venga raccontata anche nel territorio di Giano dell’Umbria sui monti Martani. Probabilmente è diffusa qnche in altri luoghi anche se non saprei dire se fosse legata a ricorrenze particolari.