In summa cavea, lo spettacolo della perennità
In summa cavea, sulla cima di quel che resta delle gradinate, sopra il ritrovato anfiteatro di Carsulae, in mezzo all’Umbria, si resta incantati a rimirare l’ellisse dell’arena giù in basso e poi, alzando lo sguardo, le montagne piramidali e sacre dei Martani che sembrano montare la guardia, come il loro nume tutelare Marte, alla città stessa e alle greggi. Tutto appare in armonia.
Sempre in summa cavea, ma a mille metri d’altezza, nell’anfiteatro di Alba, sopra il Fucino, in Abruzzo, anche qui con gli occhi attratti dall’ellisse dell’arena e poi su, alzando lo sguardo verso le alte vette gemelle del Velino, contornate di nuvole, s’indovinano le dimore degli dei, o dello spirito.
Alzo lo sguardo, chiudo gli occhi, timore di posarlo.
Gio.Lindo Ferretti
Perché abbiamo posato lo sguardo?
In quegli anfiteatri, in quelle città di pietra bianca sotto gli Appennini, a Carsulae, ad Alba, duemila anni fa, l’avevamo già posato lo sguardo. Eppure ricordavamo. Ricordavamo il monte e il suo glorioso archetipo. Gli edifici stessi, gli edifici pubblici, le città, la loro forma urbana ne erano influenzati, orientati, incantati, affinché non si dimenticasse che questo derivava da quello. Che il nume era in alto, seppur nascosto.
Carsulae e Alba Fucens, al di là della storia, hanno più di qualcosa in comune. Entrambe ai piedi degli Appennini, entrambe nate da una sconfitta, o almeno da un mutamento nella vita delle popolazioni locali, per volere della potenza nascente di Roma. Entrambe oggi città fantasma, città romane riemerse dal sottosuolo senza le stratificazioni di nuove città sopra. Entrambe città di fortunate rovine, aree archeologiche nelle quali le pietre antiche – proprio per non aver subito contaminazioni di sorta – risuonano più che altrove in perfetta vibrazione con la natura circostante, con il paesaggio, con le grandi querce, con i monti.
Dai monti venivano molti dei primi abitanti di Carsulae e sui monti forse tornavano, con devozione e speranza, con la consapevolezza di incontrarvi il mistero col quale si confrontavano ancora, naturalmente. Nei pressi dell’arco d’ingresso della città, poi detto di San Damiano, lungo la ben pavimentata via Flaminia, in recenti scavi è emerso un incrocio, un’altra strada, anch’essa pavimentata, un diverticolo che prende decisamente la direzione dei monti, di un valico montano. Forse era la via delle pecore, forse la via del carro, verso quello che oggi è il fosso dell’Eremita e poi verso l’ara major a 1120 metri d’altezza. Lì resta ancora la base di un grande tempio, di un santuario italico costruito e ricostruito, usato dagli Umbri, dai Sabini, dai Naharki, e poi frequentato addirittura fino al 1600, quando ancora non se n’era persa la memoria.
Verso quella cima e verso sottostanti fenditure nelle rocce, sacre da tempi immemori, guardano, con intenzione e nostalgia, l’anfiteatro, il teatro, la basilica, il foro e i templi principali della romana Carsulae, non dimentica – forse – delle sue più antiche origini e del sentire delle genti delle montagne.
Qui dunque il paesaggio è sacro, è parte del mistero, parte dello spettacolo, che non è perciò solo quello dell’arena.
E’ ben triste il vivere che non trova accesso al mistero.
E triste è non confrontarsi con quel mistero che ci lascia nudi e che assottiglia l’io, svelando consapevolezza.
Quando vi troverete in queste zone d’Appennino non limitatevi a visitarle da turisti. Entrate in quel che resta degli anfiteatri, dei templi e dei teatri e guardate lo spettacolo che ancora c’è. Coglietene l’essenza, in summa cavea, in cima all’anfiteatro del quale restano solo intuibili le forme, in mezzo alle città delle quali rimangono solo vaghe idee della loro bellezza e grandezza, sotto montagne che ci sono ancora.
Guardate nell’arena lo spettacolo della memoria e del presente, ma poi alzate gli occhi oltre la summa cavea per godere lo spettacolo della perennità. Il secondo si nutre del primo e con uno sguardo può prendere il volo anche lo spirito, oltre le montagne.
Alzo lo sguardo, chiudo gli occhi, timore di posarlo.
Gio.Lindo Ferretti
foto tratte da Romano Impero e di Sebastiano Torlini