La nostalgia del selvatico
C’è un’ombra ancestrale nel profondo del nostro inconscio, che nasconde una nostalgia. Se ci camminiamo dentro, l’ombra si apre ad una tenue luce. Come quella che i nostri antenati intravedevano tra il fogliame delle grandi foreste. Una luce filtrante e prodigiosa, numinosa, in quanto rilevatrice di una invisibile presenza. Era la luce che in Appennino si associava alla manifestazione di Diana Nemorense, la luce dei boschi per la dea luminosa, la splendente, la divinità delle selve e della selvaticità.
Era, forse, anche la luce della prima consapevolezza; la scintilla che trasformò l’animale nell’uomo, la selva in un tempio.
Un mito primordiale, un archetipo che stentiamo a riconoscere, ma che è l’ingrediente segreto di mille tradizioni e di storie, solo in apparenza lontanissime tra di loro.
Alcune ce ne racconta un appassionato cantore siberiano, Nicolai Lilin, e sono “Le leggende della tigre”, il suo ultimo libro dove prima ci fa portare in salvo dal fantasma di un bambino di sale in una capanna, una zaimki, al centro di una bufera di neve nella taiga, come in un ventre materno. Poi, appena rinfrancati da una tisana d’erbe, ci lascia lì ad ascoltare uno strano e misterioso vecchio davanti ad una stufa accesa. A farci narrare il mito potente di quella favola russa che è diventata un innocente cartoon per bambini, Masha e Orso, ma che, come molte altre favole, nasconde significati fondanti. Masha/Katerina, la bambina abbandonata nel bosco, che in realtà è una cucciola d’orsa trasformata dalla pietà della taiga in una donna, vive la condizione umana sentendo sempre più forte la nostalgia della sua origine e il richiamo animale per la foresta.
E’ forse la stessa nostalgia che ha fatto nascere e crescere sulle nostre montagne d’Appennino le divinità italiche di Fauno, Silvano e Luperco che riuniscono in un solo essere la natura umana e quella animale.
La stessa nostalgia della vita selvatica: quella che riconduce continuamente Masha da Orso, oppure quella che colmava gli animi dei romantici, o ancora quella che, all’inizio del Novecento, spingeva migliaia di giovanissimi tedeschi, i Wandervögel, gli Uccelli Migratori ad organizzarsi in leghe e ad avventurarsi nei boschi, per reazione alla sorgente civiltà industriale, in una straordinaria evasione dai non luoghi delle periferie urbane verso i monti, le radure e le selve, da considerare il posto più bello dove stare, come cantavano nelle loro canzoni.
La nostalgia delle proprie origini montane e appenniniche che si avverte a migliaia di chilometri di distanza e ti fa vedere con più chiarezza la forza delle tue radici. Succede a Tommaso che a diecimila chilometri, dall’altra parte del mondo, prova a “sentirsi vivo in un’identità profonda, nascosta nelle radici dei monti”.
Nella lingua osco-umbra e in quell’insieme di varianti che andavano giù per tutti gli Appennini, casa si diceva “Tribum”; quale sia la mia casa di dubbi non è ho neppure uno: l’Umbria, la terra più bella del mondo, benedetta dagli dei antichi e da quello unico. Quale sia la mia famiglia, qualsiasi uomo che ami la libertà e la verità delle vette innevate, la fedeltà di un bianco cane da pastore, la pietas di una vecchia madre per l’innocenza dei bambini, la fermezza di robuste mura urbiche antiche di millenni, che sussurrano a noi che siamo di passaggio, benevole parole…
È la nostalgia di una chiamata irresistibile, della terra, della natura, contro la tirannide del pensiero moderno, che vuole tutto omologato allo stesso modo, tutto centralizzato, tutto depersonalizzato.
È la nostalgia indefinibile che ti prende quando guardi i faggi intorno al sentiero, le pietre, il muschio, ascolti le foglie schiacciate dagli scarponi e i cigolii dei rami, quella luce che filtra, sempre la stessa, da millenni e pensi che la tua casa, la tua Tribum sia proprio qui e ora, nel più bel posto che ci sia al mondo. Nel selvatico. Che è un luogo più grande…