Terminillo, la spada e le montagne dell’immaginazione
La spada uccide e guarisce, è un’arma oppure una croce. Specie se piantata a terra, o in una roccia, il suo simbolismo è potente, come chi l’impugna. Ercole, Artù, Galgano e chissà, magari anche un cavaliere templare in fuga sul monte più alto tra Roma e la Sabina tra lo Stato della Chiesa e il Regno di Napoli.
Gli Appennini sono fuori centro, sono margine e sono colmi di spazi vuoti, ma lo sono solo oggi e solo in apparenza. Per questo le leggende e le storie che li hanno abitati per millenni adesso riecheggiano più forte. Vere, verosimili o inventate. Come le leggende misteriose dei Sibillini, o come quella della spada nella roccia di Terminillo, il monte del Termine, del confine, o del dio Terminus.
Qui si dice che abbiano fatto campo cinque cavalieri templari in fuga subito dopo l’inizio della persecuzione di Filippo il Bello. Il più importante di questi cavalieri, poveri (ma mica tanto) compagni d’arme di Cristo, davanti al fuoco dell’accampamento, nella neve, considerata la situazione d’estremo pericolo, li sciolse dal giuramento e piantò la sua spada nella roccia, prima di chiedere e ottenere asilo in un vicino convento francescano.
Era il 21 dicembre del 1307, un solstizio d’inverno. Quella spada, o un’altra spada, ma che importa, è ancora lì e segna l’incrocio di cinque confini, giusto quanti erano i cinque cavalieri che nonostante i diversi destini, si ritrovarono intorno alla spada per anni ad ogni solstizio d’inverno, finché restarono in vita e forse anche dopo.
Non ci sono fonti attendibili rispetto a questa storia che coinvolse un tal cavaliere Guy de La Roche. Sarebbe lui, peraltro ad aver dato il nome al luogo in cui è infissa la spada, Pian di Rosce, appunto, a circa 1800 metri d’altitudine.
Eppure il motto dei templari “Non nobis domine sed nomini tuo da gloriam”, lo ritroviamo scolpito perfino su un architrave della vicina Monteleone, appena qualche chilometro dopo Leonessa, scendendo dal Terminillo per la Vallonina.
“Non a noi vada la gloria per le nostre imprese, ma a te o Signore che dall’alto dei cieli ispiri le nostre gesta”. La spada del guerriero non è dunque solo metallo, ma qualcosa di simile a uno strumento magico, capace di attrarre su chi la usa per il bene, la gloria, intesa come il fuoco d’origine celeste, che al momento della morte richiama a sé l’eroe
Vale per Excalibur e magari anche per la spada di Terminillo.
Dunque quel che conta non è la veridicità del racconto, ma la necessità per l’Appennino, per chi lo frequenta e lo vive, di ascoltare e di far proprie le sue leggende, antiche o nuove che siano: se viene meno il fantasticare e se vengono meno gli archetipi che ne sono la base, lo spirito di queste montagne volerà via con loro, lasciandole – allora sì – vuote e marginali.
Se la simbologia della spada rappresenta una forza che scende dal cielo sulla terra, in Appennino non c’è bisogno di essere maghi o guerrieri per vederla, perché qui il sacro si manifesta in ogniddove. Anche la spada di Terminillo, dunque è solo un catalizzatore, per gli spiriti che ancora hanno voglia di vedere gli Appennini per quello che sono realmente: un luogo di magia o d’immaginazione, se preferite.