Se i contadini di Giono riconquistassero l’Appennino…
Era il 1938 quando Jean Giono, quello dell’Ussaro sul tetto e de L’uomo che piantava gli alberi, scrisse una lunga Lettera ai contadini sulla felicità, la povertà e la pace.
Giono, che amava e rispettava la natura più di ogni altra cosa, in questa lettera non parla di mutamenti climatici o di buco nell’ozono. Non esistevano ancora. Ma parla lucidamente di tutto quello che ha dato origine a questi guai enormi con i quali ci confrontiamo oggi.
Nessuno lo ascoltò, come quasi mai sono stati ascoltati gli ambientalisti radicali, fuori dalle lobbies.
Ma cosa diceva questo francese provenzale d’origine italiana, lettore di Rousseau e che amava camminare sulle montagne sulle tracce dei pastori?
In sostanza il suo era un ultimo accorato e disperato appello per una società legata a sistemi di auto produzione, di scambio e di sussidiarietà. “La civiltà contadina – scriveva – s’è fatta senza il denaro”. Un’idea quella che si possa vivere e fare economia senza denaro, che suonava come un’eresia già negli anni Trenta del secolo scorso, ma che oggi appare dirompente come una bestemmia contro il sistema.
“Per avere pane, vino e carne per la mia famiglia, sono costretto a passare attraverso la nullità del denaro. (…) Amici contadini: il giorno in cui non accetterete più il denaro, sarete miei signori e padroni. Quanto a me, quando quel giorno arriverà, so quel che farò. Farò semplicemente come voi e lavorerò la terra. Ne serve meno di quanto si crede…”.
Giono, in effetti, c’insegna che il cibo è al centro di tutto, non per il suo prezzo, ma per il suo valore.
Eppure oggi accade l’esatto contrario: la produzione di cibo e il suo trasporto – ci ricorda Carlo Petrini – da alcuni decenni sono da considerare tra le attività più insostenibili del pianeta. Ogni giorno in Italia vengono gettate via 4000 tonnellate di cibo ancora mangiabile.
Il cibo, dunque, non si produce più in primo luogo per mangiare, ma per fare mercato, per lucrare. E la sua produzione specializzata, globalizzata, distribuita irrazionalmente, spostata e conservata artificialmente, contribuisce in maniera molto consistente alla devastazione del pianeta e alla nostra deriva sociale e culturale.
Se la risposta ai mutamenti climatici e ai disastri ambientali, come si sente dire in questi giorni, è da cercare in una rivoluzione, questa dovrebbe essere una rivoluzione radicale, comunitaria, identitaria e soprattutto contadina.
D’altro canto se fosse una rivoluzione globalizzata rischierebbe di cadere essa stessa nella rete dei globalizzatori che l’hanno causata.
Contro la complicazione tecnologica ci vuole una rivoluzione di semplicità, per la salvezza dell’ambiente del pianeta, della nostra specie e delle nostre anime. La potremmo cercare a due passi da casa, non tanto in piazza e nelle città, ma sulle montagne, anche quelle d’Appennino e nei paesi sempre più disabitati.
Parte, o è già partita, questa rivoluzione, negli spazi vuoti e marginali creati dal sistema economico attuale, responsabile non solo del buco nell’ozono, ma anche dell’enorme buco nel mezzo del nostro Paese, sulla sua spina dorsale. Quel buco nella nostra memoria che ci ha fatto dimenticare la funzione, l’identità, la prodigiosa, essenziale e impagabile bellezza di queste terre e della straordinaria armonia dei paesaggi, frutto della lotta secolare degli uomini con la natura e degli accordi di pace via via sottoscritti.
La vecchia lettera di Giono vale dunque anche per noi, che ci portiamo dentro il patrimonio genetico dei nostri progenitori contadini e pastori d’Appennino, insieme alla consapevolezza di tutto quanto è accaduto dopo. Ci spinge a tornare a sistemi di auto produzione e di consumo consapevoli e comunitari e soprattutto ci consiglia di considerare la possibilità di essere di nuovo contadini, se non con la zappa in mano, almeno nell’animo; ci sprona a rammentare che l’ambiente, la terra e la natura e non il denaro, possono essere i motori di rinascita umana, aiutandoci a respirare meglio e ad annusare i profumi delle primavere.