Sapori

La sanità delle prime cose

Stamattina dalla pecorara di Cesi, sotto la montagna dove hanno preso più polvere i miei piedi e più spirito la mia anima, ho visto una carrozzina con una bimba di pochi mesi, lasciata lì sull’aia, da sola, cullata dalla brezza di marzo, con gli occhi azzurri spalancati sulla vita, sotto il cielo, sul verde dei lecci e il bianco/grigio calcareo della penna di San Giovanni. Il nasino mobile ad annusare la puzza profumata dello stallatico dal recinto con le pecore e gli agnelli.
Nella casa della pecorara non stupisce il disordine di chi ha troppo lavoro da fare, ma l’essenzialità caotica. Gli olivi, le galline, la vecchia cucina, il focolare, il laboratorio.
La carne degli agnelli macellati accanto a quelli appena venuti al mondo, il latte trasformato in formaggio da poche ore, il primo sale, candore e tonda perfezione, risultato finale della vitale confusione/caciara.
Il sapore del formaggio forte, aspro, acido, e poi delicato, avvolgente e persistente, d’erba, di caglio e di nutrimento, di sincerità e di libertà.
Gli odori che ti saltano addosso e ti entrano nel naso e nella testa.
Il fontanile e la strada sassosa, il sentiero fino alla piccola chiesa di San Giovanni di Piedimonte dove per trecent’anni – e quanti altri prima chissà – si sono sposati e sono stati battezzati miei avi, tra il monte e la valle, sotto i volti dei santi e lo sguardo materno della vergine fuori dal tempo, con le rocce e un castello a far da campanile lassù in alto.
Nell’ombra della grande lecceta, sul camminamento in salita verso la rocca, ci saranno passati lupi e pecore, soldati e banditi, ci sono cinghiali e pettirossi, c’è il fiato pesante, le gambe riottose, la testa ripulita. Posto ideale per il Marte italico, signore delle greggi prima ancora che della guerra, per Faunus e per Diana Nemorense.
Sono ancora tutti qui, questi nostri santi e tanti dei, in questo bosco, o nella caciara di Manuela, tra i suoi agnellini vivi e in quelli sacrificati, tra la vita e la morte, negli occhi azzurri della bambina, e nei belati.
Sono qui, tra la sanità delle prime cose, come intuiva Dino Campana, il poeta matto di Marradi, ascoltando l’acqua e il vento sulle montagne della Verna.
Eccole, le prime cose: la loro sanità e l’essenza non sfuggivano ai nostri progenitori, che perciò le ponevano in alto nel pantheon, trasfigurazione di forze e archetipi divini.
Sarà questo il segreto che abbiamo dimenticato, concentrandoci sulle cose seconde e secondarie?
Bisognerebbe chiederlo a quella bimba dagli occhi azzurri e con l’odore delle pecore nel naso. Perché lei la risposta oggi la sa già, prima che prenda in mano uno smartphone.

(…)
Strappa da te la vanità, non fu l’uomo

A creare il coraggio, o l’ordine, o la grazia,
Strappa da te la vanità, ti dico strappala
Impara dal mondo verde quale sia il tuo luogo
(…)
E. Pound, Canti Pisani

Un pensiero su “La sanità delle prime cose

  • Elena Venturi

    Bellissimo questo pezzo, mi ha ricordato odori e piccole -grandi- cose della mia infanzia. Il suono della campanella del cicco che passava col pastore e appresso tutto il gregge di notte, d’estate, sotto casa mia.
    E poi, la ricotta tiepida e profumata che mi portava la vicina in un piccolo colino d’alluminio.
    Essenziale che non è pauperismo ma stile di vita, levare via quello che non serve, lasciare solo ciò che è.

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