Un dio abita qui, l’Appennino dell’esserci
Uno dei romanzi iniziatici di Gustav Meyrink è “Il domenicano bianco”. Il protagonista si chiama Cristoforo Colombaia e, proprio come una colombaia, porta dentro di sé le anime dei suoi antenati.
Anche l’Appennino a guardarlo bene, ad ascoltarlo, a camminarci dentro, appare come una colombaia. Ogni passo nasconde un’esistenza, ogni luogo, ogni paesaggio svela la magia dell’essere che s’immerge nel tempo della storia e in quello della natura.
E’ necessario un processo di estrazione, ne sono strumenti la curiosità, l’attenzione, la sensibilità, forse la predisposizione. Ma qui l’immaginazione si fa più sottile e la stessa capacità di evocare immagini create da altri viventi, in molteplici ere, è un evento tutt’altro che raro.
Nell’ampiezza e nella purezza conservate tra gli orizzonti, tra i boschi, le forre, i villaggi, le pietre squadrate, le torri, i campanili e gli stazzi dei monti di mezzo di questa terra fatale che è stata e che è l’Italia, quando le antiche rappresentazioni si mescolano con le percezioni sempiterne e archetipiche, ne scaturiscono nuove frontiere, ulteriori superamenti di livello nella consapevolezza dell’essere.
Queste sono d’altra parte le terre dei Sabini, Sabha, dell’assemblea dei liberi, dove le anime dei morti, i lares, non abbandonavano i vivi al loro destino, e il pater, a tavola, li invitava a partecipare al pasto familiare; dove gli augures e i reges sacrorumnon erano né profeti, né predicatori, ma maghi e sciamani, persone che più delle altre sapevano trovare i varchi, le porte e le chiavi per mettersi in contatto con mondi ultraterreni che si rivelavano in fenomeni naturali; dove Marte, prima ancora che guerriero era Silvano e gli si rivolgevano preghiere per le greggi e i raccolti. Dove, tra i boschi sotto le cime, venne per la prima volta pronunciato il nome di Fauno. I monti di Giove folgoratore, del flamen dialis e della magia omeopatica delle pietre colpite dalla saetta, delle foreste di Diana e di Giano, dio dal duplice volto degli inizi e delle fini, delle porte visibili e invisibili, come quelle della percezione.
Tra queste montagne d’Appennino, dal nome così antico e segreto, Ovidio poteva dire: numen inest, qui abita un dio.
Se camminiamo leggeri su questi sentieri potremo forse condividere quella stessa percezione, rappresentando la numinosità più modernamente, ognuno con gli strumenti dei quali dispone nello zaino che si porta appresso, magari con il Daseindi Martin Heidegger, perché niente più che l’Appennino e la montagna immergono l’esistenza nell’essere e infondono la sensazione dell’esserci, che irrompe e ti aiuta a riflettere sulle tante, forse troppe, anime che ospiti nella tua come il Cristoforo di Meyrink.
“Il tempo è la sostanza di cui sono fatto. Il tempo è il fiume che mi trascina, ma io sono il fiume; è una tigre che mi sbrana, ma io sono la tigre; è un fuoco che mi divora, ma io sono il fuoco” (Borges)