Il mondo piccolo di Girocco e il suo vino cotto
Nelle gare a staffetta gli atleti si passano il testimone. In questo caso non c’è una gara, ma il testimone da passare sì, ed è una bottiglia di vino speciale, un vino cotto che in un caldo pomeriggio d’estate viene consegnata dalle mani di Francesco, giovane viticoltore della Valnerina (per la verità l’unico) a quelle sempre forti di Girocco, 94enne dalle radici profondissime ben piantate tra Valleludra e Vallecupa. Tre anni prima era stato Girocco a dare la ricetta della pozione magica a Francesco e ora ecco il risultato.
Non siamo all’osteria ma in un vecchio casolare di campagna nel territorio comunale di Arrone, poco distanti dal borgo medievale e dal suo gemello Casteldilago, sulla strada provinciale per Polino. Girocco si lamenta per il mal d’ossa, ma sale la “greppa” di fronte all’uscio di casa senza particolari problemi. Arriva in giardino e indica quei tre o quattro filari di vigna sul poggio, che rubano terra al bosco e ai cinghiali, visitatori dispettosi quasi ogni notte. “Adesso non ci vado più sulla vigna, ma l’uva per fare il vino cotto la prendevo lì”. Dove c’era anche la “pisciona”, uva bianca, evidentemente succosa.
Tutto qui sembra fermo a un’altra epoca, anche il volto di Girocco, coi baffetti ben curati. “Sono nato in questa casa nel ’24, ho lavorato all’acciaieria, ma poi ho smesso e sono tornato a fare il contadino: avevamo 500 piantoni, la vigna, le bestie e anche una cavalla: con quella c’andavo a correre nelle gare per le feste dei paesi, a Castiglioni e alla Villa”, dice Girocco lisciandosi i baffi.
Era meglio la fabbrica o la campagna? “Oh di sicuro era meglio lavorare la roba mia!”. E’ passato quasi un secolo, eppure Girocco è ancora qui, testimone di un mondo che sembra lontano mille anni e che invece si può ancora toccare e annusare. Come quell’uva, appena colta, spremuta nel torchio e immediatamente dopo, messa nel caldaio di rame. Per ore, il succo non fermentato veniva lasciato a cuocere, maneggiato con perizia e costanza “co lu ramminu“. Poi se ne metteva un po’ nel piatto ci si passava il dito in mezzo e se rimaneva il segno voleva dire che era cotto, pronto per andare in botte”. Dove veniva rimboccato ad arte e lasciato riposare a lungo. Ecco il vino cotto, specialità delle Marche, dell’Abruzzo, ma anche della Valnerina e di Arrone, dove lo facevano tutte le famiglie in campagna.
Un vino speciale, da bere per le feste, per la mietitura? “Veramente noi lo bevevamo sempre, quando capitava”, dice Girocco ridendo. Nonostante questo alto gradimento il vino cotto è sparito, come tante altre cose, inghiottite dalla modernità, come è sparita l’agricoltura di sussistenza, l’abitudine di ogni famiglia, o gruppo di famiglie di produrre quasi tutto ciò che serviva alla propria sopravvivenza: dal grano al vino, dall’olio alle uova, dal latte al pane e al formaggio. “Questi casolari dove vivevano due o tre famiglie, quasi come in un microscopico paese, erano l’essenza di un mondo piccolo e autosufficiente, all’opposto di quello attuale della globalizzazione”. Un mondo da buttare, come la mola di pietra abbandonata in un angolo del cortile e sommersa dalle erbacce?
Francesco Annesanti è convinto di no. Tanto da impegnarsi a riprodurre il vino cotto nella sua azienda, suscitando anche la curiosità di Slow Food, che ne vorrebbe fare un presidio. “E’ un esperimento, non lo posso neanche vendere, per questo, per il momento, l’ho chiamato Clandestino, lo beve solo chi se la sente di accoglierlo, gli amici”. E naturalmente se lo berrà Girocco. Che guarda sorpreso e compiaciuto la bottiglia portata in dono da Francesco. Sarà la prima di una nuova generazione di vino cotto di Arrone, magari da esportare nel mondo, partendo dalla Valnerina, attraverso il web. Girocco è pensieroso e – aiutato a ricordare dalla nuora – dice che forse da qualche parte ha ancora conservata una bottiglia di quello vecchio, dell’ultima produzione da confrontare con la nuova. E così due mondi lontanissimi s’incontrano e si stappano.