Montagna madre

La rivoluzione paesana d’Appennino è già iniziata

Di paese in paese, di Appennino in Appennino: c’è sempre qualcosa da capire e da imparare. Da Sud a Nord e da Nord a Sud, perché l’Appennino non ha un verso, non ha un sotto e un sopra, ma solo un dentro e un fuori.
Dalla pietra di Bismantova agli scogli di Scilla (che sta sul mare a chiudere i monti naviganti), da Sassalbo sulla via dei lombardi, fino alla Civita arberesh del Pollino; dalla Marradi di Sandro Penna alla Pescasseroli di Benedetto Croce; dal paradiso dei diavoli di Castelluccio, alle solitudini tibetane e marchigiane di Elcito, fino alle allegre cunversazioni irpine di Calitri e ai borghi ciarlatani e narranti della Valnerina: i paesi d’Appennino sono un racconto interminabile per chi lo sa leggere e ascoltare, per chi lo sa interpretare e cantare, da Paolo Rumiz a Vinicio Capossela, da Franco Arminio a Vito Teti, fino a Giovanni Lindo Ferretti.


Ma si potrebbe dire di più: i paesi d’Appennino sono un esempio, sono un tesoro, sono un bene comune, sono un laboratorio non solo per la montagna, ma per tutta l’Italia che crolla e che ha bisogno disperato di nuove idee che la sostengano.

Perché nel nostro Paese tormentato ci sono tanti luoghi sommersi dal cemento così apparentemente pieni di vita, ma inesorabilmente avviati a diventare non luoghi. Poi ci sono luoghi – quelli abbandonati e marginali, come le aree interne –  che invece sono ancora luoghi, nonostante tutto, nonostante l’abbandono. Perché il loro genio, i loro geni non sono volati via, non se ne sono andati, al contrario di molti loro abitanti.

Non si parla di spiriti, fate o fantasmi, almeno stavolta. Si parla di paesaggio e di terra, di boschi e di acque, di pietre e di case che sono, naturalmente, ancora lì. Si parla quindi di rapporti tra uomo e natura. Che lì, nell’Appennino abbandonato, sono ancora possibili e necessari. C’è solo bisogno di riallacciare dei nodi, ovvero di imparare a farne di nuovi.

La scelta sul futuro di queste montagne, di queste aree non marginali ma centrali per l’Italia, è ora tra due estremi: vogliamo farne il parco giochi di quella parte di genere umano costretta a vivere a valle tra viadotti e tangenziali, oppure vogliamo provare, qui in Appennino, a costruire, come in un laboratorio, un nuovo modo di vivere, un nuovo rapporto con il paesaggio e con la natura, con la vita comunitaria dei paesi?

Perché qui, nei paesi d’Appennino, la natura si sente ancora, con il naso, con i piedi, con gli occhi… In Appennino, chi torna, o chi resta con animo nuovo, è molto diverso da chi, cinquant’anni fa, aveva rotto il rapporto o la catena secolare che lo legava al paese; non è più, come suo nonno o suo padre, attirato dalle sirene del nuovo modello di vita e di sviluppo della valle che ora, suo malgrado, ha sperimentato…

Cosa ritrova e cosa porta l’uomo che torna in Appennino?

Innanzitutto ritrova la tradizione. La tradizione più importante e impegnativa custodita dal paese di montagna: quella che riconduce alla necessità, all’opportunità e alla bellezza di fare le cose insieme: il pane, la carpitura delle lenticchie, la trebbiatura, il pascolo, la legna, il formaggio. La tradizione comunitaria, il senso del sacro, la percezione circolare del tempo e del mutare delle stagioni, del posto e della giusta dimensione dell’agire umano nel grande teatro della natura; la visione del cielo stellato, la selvaticità, gli spazi, la libertà.

Cosa può portare in Appennino l’uomo che ritorna? Prima di tutto la voglia di ritornare e la consapevolezza dei limiti del modello sperimentato nelle città. Poi tutto quello che della modernità può trovar posto tra le montagne, per stare più comodi (non necessariamente comodissimi), più sicuri, più collegati.

Nell’armonia tra quel che potrà ritrovare e  quel che di buono riuscirà a trasferire si giocherà la possibile e auspicabile felicità del ritornante e/o del resistente nei paesi d’Appennino e quella dei loro successori.

Affinché tutto ciò possa funzionare l’idea dovrà essere accompagnata da una razionale visione, da un corpo di leggi, da un programma, da misure di sostegno.

Però, di fatto, seppure a macchia di leopardo, seppure “all’italiana” sta già succedendo. Se giovani calabresi ritornano nel paese arroccato sotto al Pollino e reinventano l’offerta gastronomica arberesch, se giovani umbri spostano gli studi di progettazione sotto le rocche medievali e montane della Valnerina, se giovani liguri e toscani si ritrovano intorno al fuoco nei metati a essiccare le castagne e a fare progetti per il futuro, se in Molise rinasce l’orgoglio sannita e la cultura più antica si trasforma in marketing territoriale per il rilancio di paesi dimenticati, se in una piccola comunità terremotata si riscopre la voglia di comunanza e di comunità per mettere alle spalle la botta grossa…se  giovani e meno giovani marchigiani del cratere sismico riscoprono il noi al posto dell’io come strumento più efficace per ricostruire non solo le pietre ma anche i rapporti, se un po’ dappertutto in Appennino c’è voglia di riscoprire il senso comunitario delle feste…

Se sta succedendo tutto questo, forse vuol dire che la rivoluzione dei paesi d’Appennino è già cominciata e c’è bisogno solo che qualcuno racconti e canti questa speranza di paese in paese e di città in città, affinché la catena (d’Appennino) si rimetta in movimento in tutta la sua enorme lunghezza, con tutta la sua grande forza e aiuti l’Italia a risalire.

 

 

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