La seduzione di Sibilla nel paradiso del diavolo
Non c’è, in effetti, seduzione più seducente di quando il brutto è bello e il bello è brutto. Si può star sicuri, allora, che di mezzo c’è una strega. O una fata. Ma cosa è una fata? Domanda complessa, che crea confusione, un grande stordimento. C’è dunque, forse, un incantesimo connesso a questa domanda? Un incantamento, che sempre accompagna la seduzione, specialmente qui. Specialmente quassù.
Se-durre. Come Sibilla, Alcina, come Melusina, come Circe. Se-durre, condurre a sé (o al sé), con il canto di una sirena, una magia, una promessa, un inganno. La bellezza, ad esempio.
C’è un ombelico. Tutti lo hanno: lo hanno le belle donne e gli uomini grassi, e lo hanno i luoghi, i Paesi, i paeselli e le Nazioni. Lo aveva la Grecia, l’Ellade, e stava a Delfi, l’omphalos. Ce l’aveva l’Italia, quella antica e antichissima degli italici, Viteliù, tra i suoi monti dorsali, anzi forse ne aveva più d’uno. E pure se l’ha dimenticato, almeno uno di ombelico ce l’ha ancora, ed è sexy, molto sexy: in mezzo a tutto questo bailamme che è l’Italia di oggidì, c’è l’altopiano-ombelico di Castelluccio, insinuato tra le gobbe prative, nelle montagne della Sibilla, tra le pieghe dell’Appennino e del nostro inconscio collettivo.
Quel liscio ombelico, piatto, colorito, da accarezzare con levità, è il Pian Grande, piccolo Tibet d’Italia. Esso è l’ombelico della Sibilla. La bellezza abita qui, e qui appare, nei candidi rigori invernali o nelle variopinte primavere. Un tal Guerino, cavaliere, lo venne a sapere. Un cavaliere va sempre alla conquista, ma la bellezza si può conquistare? Si può cercare, semmai, come un Graal, per sperimentarne il pericoloso potere. E se ci si cade dentro, come all’ombelico di una bella donna, nelle sue profondità, allora si rischia di perdere il senno e il senso ultimo della missione.
Ci s’innamora in quest’altopiano, di giorno, ma ancor più di notte, contro le sue infinite stellate, contro il cielo attraversato da serpenti di stelle che Jean Giono vedeva su altri altopiani incantatori, tra le stesse pecore, e pastori d’altra lingua. I piedi si muovono da soli, per incantesimo, sotto quel cielo nero traforato, Si danza tra l’erba profumata e le stelle, come le carpirine, le donne che a centinaia salivano quassù a raccogliere le lenticchie e a sera, dopo le fatiche, nonostante le fatiche, come le fate danzavano con furore, come le ancelle della Sibilla, al flauto di Pan, o all’organetto di Quinto, il saltarello liberatorio che trasformava i piedi in zoccoli di capra per quanto forte battevano sulle pietre delle aie. E le danze notturne, estive, quasi fossero dei sabba, spesso terminavano in amori terrestri e fatati sulla pula delle lenticchie, sui covoni seducenti. Era tutto un inganno? Oppure è ancora vivo l’incantesimo di Castelluccio?
E’ qui intorno il segreto della bellezza e dell’innamoramento, e dove sennò? La grotta della Sibilla ne conserva gelosamente l’archetipo, in un luogo che più bello non si può, che però, come notava argutamente l’antropologoMario Polia, null’altro è se non il paradiso del diavolo. La bella e sinuosa Sibilla e le sue provocanti ancelle fanno perdere la testa a qualunque cavaliere, ma in un secondo, eccole trasformarsi in schifosi, infidi, viscidi e pericolosi serpenti.
Cade il velo di Maya, in questo piccolo Tibet, come in quello grande e lontano. Cade fragorosamente, nel momento in cui di fronte al magnifico, alla bellezza, all’innamoramento cieco, non solo il cavaliere, ma persino il pastore e la carpirina si chiedono, semplicemente: a che serve?
La risposta Guerino non la può dare subito, perché è nella caverna. Più facile darla per il pastore nella sua semplice e arguta ignoranza. E’ la risposta più chiara, sotto quel cielo stellato del Pian Grande con un fiore in bocca, dopo aver fatto all’amore con la sua carpirina-fata-Sibilla: “Perché siamo qui e ora!”. E il velo si squarcia, perché l’importante – forse – è semplicemente porsi la domanda. Poi, ci si può innamorare e cedere all’incantamento, strizzandogli l’occhio. Specie se prima la tua fata t’ha spiegato il quinto elemento. Che val bene una se-duzione, con la quale anche tu diventi un po’ fata, o lo sei sempre stato. Allora persino di fronte alle macerie di Castelluccio distrutto dal terremoto, ne cogli l’essenza, l’anima e l’archetipo, così come, di fronte alla fata, il brutto e il bello sono relativi…
“Passata l’ora di terza Guerino montò nel palazzo, ed incontrò la Fata ch’era ritornata in sua figura, e aveva con lei molte damigelle di tanta bellezza ch’erano una maraviglia. E’ vennero contro a lui con un falso riso, e quando egli vide tanta beltà maravigliossi, e andò incontro alla Fata, e salutolla dicendo: — Quelle cose in che aveva più speranza, nobilissima Fata, ti aiutino!» Ella disse: — Che cosa è Fata, e a che tu mi chiami Fata, se tu sei fatto come sono io!»
Poi dimandò s’ei sapeva di che era fatto questo nostro corpo, cioè l’uomo. Quindi rispose come i nostri corpi eran governati da trentaquattro cose, e che ventotto venivano dalla natura.
Ei la pregò che gli volesse esporre il tutto, ed ella lo espose in questa forma: — La prima è la forma ricevuta dal padre e dalla natura; poi disse che in noi erano cinque elementi: l’aria, l’acqua, il fuoco e la terra, e questi quattro sono per ordine di natura; ma il quinto elemento, il quale per intelletto abbiamo, non si può sapere donde venga se non per ispirazione divina, ch’è l’anima, la quale da Dio ha il suo movimento, e al partirsi dal corpo torna a lui che l’ha creata, se ella ha operato nel mondo quel che gli fu ordinato per comune ordine, e quest’anima è molto più nobile, ed è il quinto elemento…”.
(Andrea da Barberino – Guerino detto il Meschino).
- La foto di copertina è di Alberto Baldelli