L’ospite della notte più lunga
Ci sono notti buie, ma proprio buie. Che sembra nascondano per sempre la luce del sole. Ed è meglio passarle insieme. Senza guardare smartphone e televisione. Intorno ad un fuoco, in una capanna di montagna. Come avete fatto tante altre volte. A raccontare sempre più rari sogni, sempre più lunghe storie.
La capanna è nell’ultima faggeta, appena sotto la cima. D’estate la usano i pastori, d’inverno è libera. Le vostre bevute d’alcol non sono uguali a quelle di chi pascola le pecore, o forse sì, comunque non sono inutili, come le loro. Le vostre notti, la vostra notte, di sicuro è più fredda della loro.
C’è appena una spolverata di neve fuori, abbastanza per sentirla scrocchiare sotto gli scarponi. La stufa è già accesa e le scintille non ne vogliono sapere di restare dentro quella vecchia scatola di ferro arrugginito. Se esci fuori dalla capanna le vedi salire in cielo saltando su dalla canna fumaria troppo corta: vanno a rubare il posto alle stelle. Che sono tante qui, davvero troppe per farti sentire il centro dell’universo. Non lo sei, non lo siamo. Ma ci siamo, qua dentro, e qui ce ne accorgiamo di più.
Un fuoco nella notte più lunga, pochi amici e una capanna. In attesa dell’alba più importante dell’anno. E prima ancora dell’aurora, che l’abbiamo quasi tolta dal nostro vocabolario questa parola. Ed è un peccato, per quanto è piena e densa, numinosa e luminosa.
Si scalda, si cuoce, si cucina, si mangia. Insieme. Si beve e si canta. Cose piccole, spesso dimenticate. E si ascolta. Il silenzio ed i rumori della faggeta che cigola nel vento.
Poi un tonfo e un piccolo colpo sulla porta di legno. Due, tre. Bussano. Bussano? A quest’ora? Quassù? Hai sentito una macchina? No. Apri. Un piccolo brivido.
C’è un signore con la barba grigia. E le racchette ai piedi. No, non le ciaspole. Proprio le racchette, quelle di una volta. Ti guarda negli occhi. Dice che nevica più su. Non te n’eri accorto. Ha un cappello da montanaro con la piuma. Sorride. Indossa una giacca di pelle alla maremmana, sotto ad un vecchio mantello a ruota. I guanti e una bella bisaccia di cuoio. Chiede permesso. Dice se si può scaldare un po’. Magari è un cacciatore di cinghiali che si è perso nel pomeriggio. No non lo è, ti dice, sorridendo ancora.
Apre la bisaccia e mette un sacchetto sul tavolo. Ah, tartufi! Esclamate in coro! No! Canditi! Cedro, arancia, albicocca! Frutti del sole, esclama soddisfatto. E’ la notte giusta per mangiarne. Sono colorati. E’ roba per bambini, come le palle dell’albero di Natale, pensi. Ma sono buonissimi. Ne mangia anche lui, che ha tirato fuori un coltello da cacciatore per farli in piccoli pezzi e continua a distribuirne a tutti. Poi accetta il bicchiere con il vino e attizza il fuoco nella stufa. Vi guarda soddisfatto e dalla bisaccia prende una bella pipa lunghissima.
Non vi dispiace se me ne sto al caldo qui con voi? Anche lui aspetta l’alba. E con la pipa accesa, inizia a raccontare.
Salirete all’antico tempio in cima alla montagna, vero? Lo farò anch’io.
E’ capace di fare degli anelli di fumo perfetti. E il suo tabacco ha uno strano profumo. Ma è tabacco?
Dice di avere un appuntamento, come tutti gli anni, il 21 di dicembre all’alba.
Dice pure che una giovane signora lo aspetta, come sempre per dargli delle risposte.
E dove sta? Con questo freddo…
In una grotta. Una maga? Una Sibilla?
Un’amante, ride. O una madre, chissà! Sono vecchio, ormai.
Ma non sono le montagne giuste per le Sibille, gli dici. Quelle sono più in là. E indichi a Est.
Dipende, risponde lui. Dipende.
Adesso nevica più forte, ma è tempo d’uscire. Andate in fila per il sentiero che sale, a lato dell’albero dalle grandi radici. Il primo di voi ha una torcia. Dietro di lui il signore barbuto. E anche l’ultimo della fila ha una torcia accesa. Superate la faggeta, il vento si placa e la bufera di neve cessa. I prati sommitali sono completamente coperti da una coltre bianca e il cielo si sta aprendo, mentre ad Est, sopra altre montagne imbiancate, sembra appena di scorgere un mutamento cromatico nell’oscurità. Come se il sipario si stesse per alzare.
Giunti in prossimità della vetta e delle mura dell’antico tempio, il vecchio vi fa cenno di deviare su un lato, verso l’imbocco di una grotta appena qualche metro sotto il recinto dell’area sacra.
L’apertura nella terra sembra un grande orecchio. E lui, in effetti, accucciandosi, ci accosta la bocca, sussurrando qualcosa, brevemente. Si rialza e vi guarda. Bisogna essere concisi nel chiedere, si giustifica.
Saliamo tra i resti della cella del tempio. Che non ha più un tetto, ma solo il cielo e la terra. Aspettiamo la luce e aspettiamo la risposta, dice.
La brezza dell’aurora e l’aura muovono le fiamme delle torce e tu guardi l’uomo ritto sulle pietre squadrate, la fronte verso Est.
Silenzio, sembra.
Avete sentito?, chiede. No, niente, dite.
Allora, è un problema vostro. Provate ad ascoltare meglio!
Io vado, sta per ricominciare il mio tempo.
Ascoltiamo meglio. E stavolta ci sembra di udire un’eco, un sibilo. Ma che vuol dire?
Ti giri e il vecchio non c’è più. Eppure ti sembra, con la coda dell’occhio, di aver intravisto il volto di un giovane imberbe e sorridente che ti fissava.
Sarà stato il vino, pensi.
Auguri a tutti buon anno e buona luce nuova. Anche se non sai che risposta abbia udito il tuo ospite della notte più lunga. E se sia la stessa che tu hai sentito sibilare tra le pietre.
Che bello!!!!
Soprattutto la prima parte.