Una storia di terra e scarponi
C’è una cosa che mi sembra strana ogni volta che mi metto gli scarponi e salgo verso le nostre montagne di casa, da quando ho scoperto che generazioni e generazioni di miei avi vivevano lì, proprio sotto al monte d’Appennino più vicino alla mia città.
Ai piedi di questo monte, ci stava e ci sta ancora una chiesetta. Prima si chiamava San Giovanni… di Piedimonte, appunto. Poi, dopo che ci passò un vescovo, ha cambiato nome e adesso si chiama la Madonna dell’Olivo.
In questa bella chiesetta, stretta tra gli ulivi e le rocce il prete ha battezzato i miei trisavoli e i bisavoli, e ha sposato pure tutti quelli che son venuti prima di me, nella mia famiglia, e che stavano proprio lì, a zappa
re quella terraccia piena di sassi, oppure a pascolare le pecore sui prati lassù, pigliando il sentiero verso le Aie.
Fatto sta – e questa è la cosa strana sulla quale rifletto tutte le volte che comincio a camminare – è che ad un certo punto questi miei avi, avendo visto che quaggiù a valle qualcosa si stava muovendo, insomma arrivavano le fabbriche, la ferrovia e tante opportunità che non se le sognavano fino a poco tempo prima, beh, si sono messi gli scarponi pure loro e però sono scesi giù, nella conca, per sempre, per cercare una vita migliore.
Questo è normale, certo. Come poteva accadere altrimenti?
Però la cosa strana è che adesso, dopo tanto tempo, che succede? Che io, che sto quaggiù a valle, mi metto gli scarponi e, per cercare di migliorare la mia vita, che faccio? Risalgo su, da dove erano scesi loro. Buffo no?
Ma noi non torniamo mai nello stesso luogo con la stessa testa. No, la nostra testa è cambiata e queste montagne non le vediamo più come cento o duecento anni fa o duemila anni fa. Ma la terra, la terra sotto i nostri piedi, quella no, non è cambiata.
E questo mi fa pensare ancora. Sì, mi fa pensare, quando salgo su, come dice uno che da
queste parti ha scelto di abitarci, mi fa pensare che quello che sta sotto, a valle, anche il lavoro, la ricchezza, o almeno la tranquillità economica che cercavano i miei trisavoli, beh è tutto molto relativo, e si rimpicciolisce man mano che salgo. Poi mi fa pensare che lassù, sulla montagna, anche il tempo diventa relativo. Il tempo cambia dimensione.
Quello della storia, ad esempio, s’accorcia incredibilmente. Il tempo degli uomini, in fondo, è stato di poche generazioni – quante ce ne saranno state? Cento, centocinquanta al massimo…- e qui ne calpesto le tracce in pochi chilometri. Gli antichi umbri con i loro templi sulle cime, i romani con le loro pietre squadrate che salendoci sopra guardi meglio il paesaggio, i longobardi, i guelfi e i ghibellini, i santi e gli eremiti che hanno abitato grotte dove t’infili anche oggi a sentire il respiro della terra, i monaci che poi c’hanno costruito sopra i conventi abitati dai frati francescani dei quali si sente ancora lo spirito in mezzo a questi boschi; i bersaglieri del nuovo Regno d’Italia che scacciano i frati dai conventi, che poi ci ritornano…sono tutti lì: i loro passi sono i miei passi. Basta una passeggiata di poche ore per ri-calpestarli tutti.
Insomma il tempo degli uomini e la loro storia, sono corti, o meglio relativamente corti. Diverso è il tempo delle nostre montagne. Incommensurabile il tempo della terra edel cielo che ci sta sopra e che da qui, finalmente, si mostra. Di fronte ad esso puoi buttare l’orologio, non ti serve più. Il tempo della montagna non c’entra nell’orologio. Qui ci sono solo aurore, albe, tramonti, crepuscoli, lune piene, inverni, primavere, estati…qui la sveglia non suona, il tempo non fugge…
E allora i miei scarponi di marca e quelli malmessi del mio trisavolo che conduceva il gregge s’allacciano insieme, ma senza farmi cadere. Gli uni spingono gli altri. Camminiamo con le stesse gambe, sugli stessi sentieri. Perché poi ti rendi conto che ora come allora sulla montagna si gioca una lotta per la sopravvivenza.
I miei avi di sicuro qualche volta le odiavano la montagna e la natura alla quale tentavano di strappare le risorse per continuare a far crescere la famiglia, ma le vedevano come una madre, una Grande Madre, a volte severa, a volte benevola. Ora io, quella stessa montagna, la considero come una possibilità da cogliere: ma andarci su è sempre una lotta per la sopravvivenza: cioè, serve a mantener viva una parte di te.
Diversi usi, stessa terra. Stessi scarponi, stessa salita, stesso sudore. Stesso obiettivo: la sopravvivenza. Che non si sopravvive solo col mangiare…
(tratto dallo spettacolo “Con i piedi per terra”, 2016)