Nessun luogo è disconnesso
In viaggio tra Fermo e il Santuario dell’Ambro con
Emanuele Luciani
A volte, troppe poche volte, una passione cresce così tanto da diventare il punto di partenza per una più profonda comprensione del tutto. Anastasia e io ci scambiamo spesso racconti delle nostre giornate, specialmente quelle più avventurose o particolarmente suggestive, cercando di carpirne i segni.
Dalle molte esperienze vissute in questi anni sappiamo che nessun luogo è disconnesso dagli altri, anche i più isolati, anche i più montani. Un fine settimana di metà settembre Anastasia era intenta a preparare un esame, quando vedendola concentrata sui libri decisi di partire per un cammino di due giorni: da casa al Santuario dell’Ambro, luogo di millenaria devozione mariana.
Camminare nella storia
Amo molto camminare ma alcune frasi ritagliate da discorsi frammentati mi risuonano in mente: “Camminare non è solo un gesto sportivo o geografico è soprattutto storico, farlo nella nostra bella terra lo rende ancora più vero. Qui, e non più altrove, si può camminare attraverso la storia di innumerevoli secoli e di migliaia di generazioni. Qui, e non altrove, la centuriazione romana, la divisione delle corti longobarde, i gesti contadini provenienti dalle enfiteusi monastiche, l’assetto viario e idraulico sono così simili alle origini da esserne abbagliati”.
Zaino in spalla
Mentre il cielo si oscurava di nubi cariche di pioggia, misi lo zaino in spalla e – preparato un poncho – le chiesi di studiare, ci saremmo sentiti soltanto dopo due giorni cosicché potessi vivere il cammino in piena contemplazione e lei concentrarsi sull’esame.
Raccontare come un bardo, o un aedo
Probabilmente l’isolamento dei due giorni mi ha reso un po’ tocco o forse, chissà, come in una storia narrata da un bardo celtico o da un aedo delle antiche polis, nel racconto che feci seguire, c’è la presenza di tutto un substrato culturale che spero di poter far comprendere. Non abbiamo un camino, così un po’ di sfamapopolo e un bicchiere di vino cotto sorseggiato sotto l’oblò della mansarda con la volta celeste a farci da faro divenne la perfetta cornice del racconto.
Dal Girfalco all’Ambro e un incontro
“Ti ricordi, mi hai accompagnato al Girfalco perchè volevo unire idealmente il centro mariano della Diocesi all’Ambro la piccola Lourdes dei Sibillini. Così, dopo che ci siamo salutati, ho iniziato a camminare. Dopo pochi passi dal Duomo esce un uomo di mezza età, vestito in maniera particolare. Abituato alle varie rievocazioni medievali non ci ho badato molto, ma si avvicinò a me. Stivali blu notte, calzabraghe nere, una tunica rossa, un lungo mantello blu, un cappello a falda larga con su cucita una capasanta dipinta con la croce dell’Ordine di Santiago. Un mezzo sorriso nel guardarlo, sembrava uscito da un quadro. Mi guarda e il suo sguardo aveva qualcosa di difficilmente spiegabile a parole. Occhi pieni di gioia, di un nero profondo, gli occhi tradivano un’età differente rispetto a quella del resto del corpo. Trasudava mistero.
“Salve” – mi disse – “vedo che anche tu parti per un cammino, che ne dici percorriamo un tratto insieme?”.
“Certo, fa sempre piacere scambiare due parole. Sto andando al Santuario dell’Ambro. E tu?”.
“Quella sarà la mia prossima meta, non so ancora quale sarà l’ultima, ma partiamo”.
Con Giacomo al fianco
Giacomo, dice di chiamarsi, il suo accento è neutro omette la provenienza, racconto così un po’ di quello che incontriamo. Mentre parlo della Fermo romana e del teatro, la via in discesa che abbiamo appena imboccato si trasforma. Non camminiamo più su un selciato di sampietrini mal messi, ma all’interno del Teatro.
Appoggiate sul colle due alte gradinate, il deus ex machina pronto all’uso, qualche lontano operaio a spazzare la cavea. Il sole scompare non per le nuvole nere che si stagliavano a ovest, ma per le prove della copertura del telo.
Un corteo nuziale e viscere appese
Inconsapevole, attonito e sconvolto incontro un corteo nuziale. Bianca Maria Visconti e l’intera corte milanese, in perfetto abito prerinascimentale. Grandi doni dappresso. Ma così come appaiono, alla prima curva secca scompaiono; incontriamo poi altri uomini a cavallo. Neri mantelli crociati di bianco fanno da guardia intorno a San Zenone. Cambiano colori e abiti, un olezzo putrido attanaglia le nostre narici: da palazzo Fogliani pendono delle interiora d’uomini appese da Eufreducci. Doni alla città per prenderla col terrore, le viscere sono dei suoi stessi parenti.
Meditazioni sotto la pioggia
Acceleriamo il passo inconsapevoli, Antonini ordina a degli operai di cambiare l’assetto dell’antico monastero ospitaliero di San Giuliano: diventerà un convitto per poveri con tanto di teatro.
Usciamo dalle mura, inizia una pioggia torrenziale. Mi copro col poncho; Giacomo s’imbottisce nel suo lungo mantello blu. Solo, nel silenzio del cammino, noto che la pioggia è abbondante, che il forte vento non ha una direzione stabile. Poi lampi e tuoni, lunghi borbottii del cielo. Tremante di freddo e paura invoco Santa Scolastica sorella di San Benedetto da Norcia, scaramanzia e devozione. Torrenti d’acqua si formano lungo la strada, grandi pozze dove non c’è sufficiente pendenza.
Molte ore senza parlare. Rifletto. Piano piano, la tempesta scema, ci prendiamo una breve pausa. Veniamo a sapere che la scorciatoia lungo Tenna è completamente allagata, così dobbiamo allungare di qualche chilometro, ma almeno non piove più.
Lungo il Tenna con la protezione di Sant’Isidoro
Ripartiamo e con la ripresa del cammino continuo con i racconti, che prendono ancora forma. Sant’Isidoro, oggi abitazione privata, era un monastero di qualche ordine cavalleresco, non sappiamo quale, aveva triplice funzione. Proteggere e vigilare sui pellegrini, riscuotere i pagamenti dei molti mulini che erano in questo tratto di Tenna, e mantenere strada e ponte sempre funzionali.
Spade, pedaggi e la guerra della bovara
Ripensandoci un attimo, l’uomo che ci ha avvisato aveva un saio e una cinta su cui era ben visibile una spada. Mi sto immaginando tutto? Il ponte era sorvegliato da uomini a cavallo che controllavano vigili l’altezza del fiume.
Giacomo paga il pedaggio. Davvero? Più avanti le case strette e lunghe delle Prese ci presentano una storia recente di conquista di terra sul letto del fiume.
Poi tamburi, forti e potenti tamburi. Cannoni, moschetti, abiti colorati con sbuffi abbondanti, lunghe piume sui cappelli.
I petritolesi sono i più agguerriti, alleati dei fermani e di Belmonte, sono pronti all’attacco di Montegiorgio che ha usurpato terreni agli allevatori. Antiche dispute territoriali, la guerra della bovara. Atterriti dai roboanti suoni dei moschetti, avanziamo.
Un bicchiere di vino e un panino al ciauscolo
La strada lastricata di pietre di fiume è una larga consolare. Perfettamente dritta congiunge Fermo a Falerio Piceno. Edili presiedono alla manutenzione, ridipingono le pietre miliari controllano le fognature ci salutano con un sorriso.
Quercia bella si presenta in tutto il suo splendore. Quasi quaranta metri di chioma. Una famiglia numerosa ha steso lu mandì e con fare gioviale c’invita. Un bicchiere di vino, un panino con un po’ di ciuascolo. I bambini giocano con delle trottole di legno e un cavallo scolpito a mano. L’uomo dalle forti mani ci saluta con fermezza. Le sue guance rosse, le mani callose, quell’allegria innata, mi ricordano mio zio e mio nonno così tanto simili così tanto in via d’estinzione. Una giovialità antica, data dal poco messo in condivisione.
I ricordi di Anastasia, il vino cotto e un’Europa antica
Qui interrompo un attimo il racconto: mentre la luna fa capolino dall’oblò Anastasia sembra distratta. Poi mi dirà di aver fatto volare la sua mente all’infanzia in un paese lontano. Lunghe gonne colorate come quelle picene, forti mani abituate ai cavalli e agli asini, lunghe privazioni, ma occhi così simili, risate forti e gioviali.
Il vino non manca mai quando ci sono ospiti, e lu mandì, benchè chiamato altrimenti, ha le stesse decorazioni tramate dagli stessi ferri. Basilio e Giovanni, Olga e Anna nonni lontani così come Blandino e Guido, Palmina e Antonietta nonni acquisiti. Nomi antichi di un’Europa unita da un unico monachesimo e da una lotta comune per le proprie tradizioni più simili di quanto si creda. Con un suono sgradevole, palatale la riporto al presente, non si apprezza davvero il vino cotto se poi una volta bevuto non se “scrocca la lengua”. Uno schiaffo me lo prendo comunque.
Ancora in marcia tra benedettini e francescani
Con una risata ricomincio:”Arriviamo dunque su una piana alluvionale qui le immagini sembrano correre come nel trailer di un film. La strada romana in completo sfacelo viene prima risistemata da monaci benedettini che costruiscono una prima chiesa dedicandola a Santa Maria in piano, grandi coltivazioni, uomini dal castello che li aiutano, mille braccia a evitare che tutta la pianura s’impaludasse. Poi cambiano i sai, la regola non è più quella benedettina, ma quella francescana dell’osservanza. Un nuovo concetto di pietas.
Una catastrofe distrugge l’intero castello lassù nel paese vecchio, l’ordine di un Papa di ricostruire, la cessione della piana. Un mondo di utopia, un quadrato perfetto.
Il riposo sul colle di Matenano
Qui finisce la nostra prima giornata di cammino, cerchiamo alloggio, veniamo ospitati dalla Marca Fermana, nomen omen di un’associazione di promozione turistica. Giacomo parla poco, nei momenti in cui camminiamo divisi prega, il suo esempio è per me uno sprone. Come se il destino di molte generazioni di uomini e donne di tutto il piceno s’intrecciassero proprio qui. Al mattino ripartiamo. Lassù c’è Santa Vittoria in Matenano. Lì trovarono rifugio i monaci benedettini fuggiti da Farfa, distrutta dopo sette anni di assedio dei saraceni e incendiata da predoni. Da qui s’irradiarono in tutto il centro Italia. I presidiati farfensi si chiamavano. Il più importante dei quali era proprio qui sul colle Matenano. Solo più tardi venne chiamata Santa Vittoria, quando cioè 100 famiglie si trasferirono a Farfa per diversi anni per ricostruire l’Abbazia e in dono l’Abate dette alla comunità il sarcofago della Vergine e Martire affinché venisse custodita e onorata. Questa espansione economica, sociale e culturale divampò per secoli.
Il Piceno accolse molte personalità da tutto il bacino del Mediterraneo. Fra essi qui vi trovò rifugio Gualtiero. Nipote dell’abate di Farfa residente a Santa Vittoria, si trasferì qui dalla Francia, cercò rifugio in isolamento dove però la sua fama di santo e guaritore lo seguì creando intorno al suo eremo un primo centro abitativo. Fu costretto a divenire abate, poi si dimise, ma fu comunque obbligato a seguire i possedimenti intorno al suo romitorio e a Santa Maria in piano.
Quell’antico eremo è una chiesa chiamata appunto San Gualtiero. Primo patrono di Servigliano, oggi copatrono insieme a San Marco.
Il treno che va dal mare alle montagne
Un forte sbuffo e un lontano rumore ci fa girare di scatto: un treno! Lu trinittu che dal mare arrivava alle montagne, un’utilissima opera di trasporto pubblico ci passa accanto e alcune signore dai finestrini ci salutano con un fazzoletto bianco. Ecco che dopo una curva appare l’abbazia di San Rufino e Vitale, ancora oggi abitata da uomini legati alla regola di San Benedetto custodisce il corpo di San Rufino.
Una chiesa romanica di grande suggestione. Un luogo di meditazione e contemplazione. Adatto a tutti, credenti e non, che vogliono riscoprire se stessi e la propria connessione con il Creato.
Tra Comunanza, Smerillo e Montefalcone Appennino
Da qui una erta via taglia per Comunanza e la val d’Aso. All’interno della chiesa di Santa Caterina d’Alessandria è conservato un organo del XIV secolo recentemente restaurato. Il paese attuale è stato costruito dopo l’ennesima distruzione del castello di Monte Pasillo lungamente conteso da ascolani e fermani. Lassù gli imprendibili castelli di Smerillo e Montefalcone Appennino, raccontano storie di millenaria saggezza.
Sapori d’autunno e le parole della montagna
Il SIC, sito importanza comunitaria, che oggi li collega serve per valorizzare gli aspetti naturalistici, ma è la forza delle loro genti a renderli speciali. La festa della castagna, sapori d’autunno, il festival “Parole della Montagna” rendono unici questi luoghi. Che dire poi della fessa, dei fossili, il museo di Montefalcone con la Pala dell’Alamanno? Con questi e altri pensieri scendiamo in cripta pregando il santo ausiliatore, dopo lunghi momenti di silenzio salutiamo l’unico monaco che oggi vi risiede e proseguiamo.
Il mercato a piè d’Ajello
Una diga crea un lago, fonte di turismo, e un sentiero molto rilassante lo costeggia. Per un paio d’ore camminiamo taciturni. Arrivati a Santa Maria a piè d’Ajello, un tempo chiamata della Misericordia, troviamo un mercato. Fabbri dal collo taurino battono sull’incudine, aggiustano vendono o prendono commissioni per il loro artigianato, più in là cesti di ogni dimensione e forma. Intrecci di salix viminalis o di olmo sapientemente legati. Calzolai venuti da lontano, Sant’Elpidio, Montegranaro, Monte Urano. Cappellai da Montappone e Massa Fermana, sapienti ramai da Force. Venditori di pesce essiccato divenuto pasto tradizionale con gli imperatori del Sacro Romano Impero, lo stoccafisso, infatti, era il piatto delle truppe teutoniche. Ma anche scapellini, falegnami, pittori, sarte, ricamatrici. Un continuo vociare di uomini e donne, di così tante epoche da frastornare. Ci riposiamo sotto ai loggiati ristorandoci con la fonte d’acqua purissima.
Tre castelli per Amandola
Amandola nasce dall’unione di tre castelli vicinissimi fra loro, Ajello, Marrubbione e Leone. Questa prima coalizione generò un tale entusiasmo che in meno di un secolo il libero comune di Amandola divenne vasto e potente tanto che molti caselli continuarono ad aggregarsi ai tre di partenza. Storicamente antagonista di Montefortino e Sarnano fu sempre alleata, a suo modo, con Fermo. Crearono una sorta di fortilizio ideale mare-monti, fatto di arte, cultura, monachesimo, ma anche di uomini d’arme e battaglie. La Salaria gallica, che è ancora evidente nell’assetto viario, era un diverticolo della consolare più famosa, collegava Ausculum alla Flaminia, ma anche aldilà dell’Appennino.
L’intervento del Beato Antonio
Il beato Antonio ci appare di fronte esortandoci a passare velocemente, stanno arrivando dei mercenari per assediare Amandola e lui li deve fermare. Correndo per un breve tratto ci ripariamo dietro una grossa quercia. Un manipolo di guerrieri vuole attraversare il ponte a schiena d’asino, il nubigero crea dei rovi che si attorcigliano intorno alle zampe dei cavalli non lasciandoli proseguire. I malviventi capiscono subito che quell’esile frate agostiniano, ha un potere forte sulla città. Se ne vanno e con essi l’immagine del beato.
L’odore di cacciannaze appena sfornata
Ora dobbiamo scegliere se proseguire in pianura ma allungando la strada o per i vecchi borghi montani. Per farlo ci concediamo una lunga pausa al forno. In fondo i chilometri già fatti sono molti e la fatica inizia a sentirsi. Ma quello che c’invita alla sosta è l’odore di cacciannanze appena sfornata. Un’oretta di pace mangiando e bevendo una birra artigianale locale, facendo un po’ di stretching. La decisione è presto presa. I minuscoli borghi alle pendici dell’Appennino c’infiammano il cuore.
L’ascesa ai Sibillini
Con tanta fatica e tanta meraviglia iniziamo l’ascesa verso sua maestà il Parco Nazionale dei Monti Sibillini. Amare la natura, la tradizione, la pace e la serenità è la condizione necessaria per visitare questo regalo del Creato. Fischiettando il motivetto di Modugno
“Meraviglioso” affannosamente proseguiamo. Racconto con vigore che dopo gli anni ’70 si è iniziato un processo di riqualificazione del territorio, istituendo il Parco Nazionale e salvaguardando le specie selvatiche. Grazie ai piani di reinserimento di camosci dell’appennino, caprioli e cervi, alla maggiore sensibilizzazione della popolazione si riesce ad avere una biodiversità…mentre ciarlo un’aquila reale fischia con forza ammutolendomi. Un alto volo fatto a spirale, fa intuire che abbia trovato una corrente ascensionale. Chissà forse una lepre o magari una coturnice sarà il suo pasto.
I cervi del Vettore
Poi un cervo bianco esce dalla radura, si ferma, ci vede, sembra inchinarsi di fronte a Giacomo. Il palco incredibilmente grande è uno dei più forti simboli di rinascita legati al ritmo stagionale. Degli ululati provenienti dal bosco ci fanno intuire che il cervo scappava dai lupi. Questo animale quasi completamente estinto negli anni ’70, ha trovato rifugio nelle macchie alle pendici del Vettore e della Sibilla. Oggi la popolazione è sana e vigorosa e ancora in espansione. Un animale fondamentale per l’equilibrio ambientale. Gli ululati si fanno lontani la trappola è scattata, ma quel nobile cervo darà loro del filo da torcere.
Finalmente a Capovalle
Superati diversi borghi meravigliosi, vorremmo deviare sul grande anello dei sibillini, per vedere il monastero dei Santi Vincenzo e Anastasio. Le forze ci stanno abbandonando, i polpacci tirano come archi pronti a scoccare, le spalle iniziano a fiaccarsi, la forza fisica viene meno. Rinunciamo al monastero e alla casa natale del beato Antonio, ci riposiamo a terra sotto una delle innumerevoli fonti abbeveratoio. Arrivati a Capovalle sappiamo che manca poco per iniziare la discesa…
La mela rosa e le meraviglie delle natura
La meraviglia della natura ci stupisce ancora. Mangiamo una mela rosa, acquistata da un contadino di Montedinove, per avere nuovi zuccheri, ma è lo spirito che si rigenera con la vista. Il Manardo è splendido. Le nuvole giocano in cielo creando chiaro-scuri indescrivibili. Il sole che sta tramontando ci ricorda che dobbiamo sbrigarci, la notte calerà presto, ma che colori!
Balzo rosso, inizia la discesa
Balzo rosso sulla nostra destra ci fa capire che è tempo di discesa. Queste arcaiche rocce rosse nella luce tenue della sera diventano rosa, o nere: inverosimile! La discesa cerchiamo di farla quasi di corsa, non vorremmo scorgere dei cinghiali che escono per nutrirsi. Trotterellando e cantando, scendiamo veloci. Il torrente Ambro rumoreggia sotto di noi. Il vetusto Amaro che da nome alla valle. Poi d’un tratto è notte ma noi siamo arrivati. L’abside del Santuario è proprio di fronte a noi. Entriamo in chiesa doloranti ed esausti.
Preghiamo in ginocchio di fronte alla statua della Madonna con Bambino coronata da dodici stelle, poi con fatica usciamo.
Giacomo chi?
Abbraccio Giacomo con gioia, lui si toglie il cappello e sfila la conchiglia sacra a Santiago de Compostella. Me la regala. Commosso cerco il mio Tau per contraccambiare, abbasso gli occhi per sciogliere il nodo, quando li rialzo non lo vedo più… mi guardo intorno frastornato. Non c’è. La sua conchiglia si. E’ stato realmente con me? Me lo sono immaginato? O forse era davvero… San Giacomo Maggiore? Ma se così fosse cosa significa tutto ciò che ho vissuto?
Con queste domande la guardo. La faccia imbalsamata da diverso tempo. Le chiudo il mento, si alza e mi versa un bicchiere di vino cotto. Con calma, in silenzio beviamo un ultimo sorso. Mi allontano. Ritorno con la Conchiglia, ecco vedi?
Lei sgranò gli occhi, guardò in cielo, il grande carro è allo zenit, ma cosa ancor più importante la Via Lattea splende come non mai. La Via lattea, la nostra galassia, ma anche il nome del cammino compostellano. Santiago patrono di Spagna protegge anche il Piceno e i suoi cammini. Anastasia finisce il vino e prima di andare a dormire chiede: “Allora dove potremmo andare?”. “Beh, sai che non amo muovermi troppo lontano…”, interrompe subito. “No, non andremo lontano. Voglio conoscere i Sibillini, il Piceno, questi nostri monti e tutti i suoi infiniti, minuscoli, meravigliosi borghi. Un sorriso sornione e so che i miei occhi s’illuminano. Oramai Anastasia è persa nel mio mondo. La sua “Cerca” ora è iniziata.
Emanuele Luciani