MappeMontagna madre

La mappa, il territorio, gli aborigeni e un nuovo sogno d’Appennino

Quando arrivi in un luogo elevato, ti fermi qualche minuto. Guardi davanti e sotto di te le colline e la campagna e pensi che sì, gran parte di questa terra, di questa contea, di questa tua piccola Heimat, l’hai percorsa a piedi, in lungo e in largo. Pensi che forse, anzi sicuramente, c’è un’app con cui potresti tracciare tutto, ma l’app migliore ce l’hai in testa, finché ti funziona. Così cominci a scorrere puntando il dito, scoprendo funzioni e soprattutto emozioni che non troverai mai su uno smartphone. Ed eccoli lì di fronte, in questo paesaggio ampio e dolce, i tuoi punti d’interesse, le tue tracce: quello è il posto dove il grano incontra la montagna e il cielo, quello è il luogo delle grandi ombre, qui l’incrocio dei cani bianchi, qua la roccaccia, la macchia lupara, laggiù il bosco dell’argilla, là c’è la casa delle botti abbandonate, il palazzo dalle cento finestre, la pozza delle ninfe, il posto dei somari…
Così se da bambino t’addormentavi con l’Atlante tra le mani, anche adesso non fai che affidare i sogni a una mappa.

Chi ha la fortuna di abitare in campagna, o in montagna, può camminare partendo da casa per esplorare il territorio e, se riesce a conservare e ad alimentare quest’abitudine per molto tempo, la mappa del proprio territorio la sta disegnando lui stesso, o almeno sta contribuendo a farlo, giorno dopo giorno, passo dopo passo.
La mappa non è il territorio“, dicono però. Anzi lo dice Alfred Korzybski, filosofo, semiologo ma soprattutto ingegnere. Lui intendeva sottolineare la differenza tra un oggetto e la rappresentazione dell’oggetto, tra una realtà e la rappresentazione di quella realtà, perché era convinto che molte persone faticassero a distinguere le due cose. Io penso che, soprattutto in passato, molte persone non volessero, deliberatamente, distinguere le due cose.
Per questo nella nostra passeggiata intorno a casa, in campagna o nella bassa e media montagna dell’Appennino, vi invito a incrociare il cammino degli aborigeni australiani, che normalmente stanno dall’altra parte del mondo. Però grazie ai popolari taccuini di viaggio di Chatwin e al lavoro più oscuro, ma ugualmente importante di qualche bravo antropologo, possiamo dire di sapere qualcosa di un loro singolare modo di camminare e di sognare, senza distinguere la mappa dal territorio. Eh sì, perché la loro mappa era molto sottile, ben più di un foglio di carta.

Secondo i miti aborigeni sulla creazione, alcune creature totemiche avevano infatti percorso il continente australiano nel tempo del sogno, cantando il nome delle cose e delle creature in cui si imbattevano, facendo così esistere il mondo.
Si credeva che ogni antenato totemico, nel suo viaggio per tutto il paese, avesse sparso sulle proprie orme una scia di parole e di note musicali, e che queste Piste del Sogno fossero rimaste sulla terra come ‘vie’ di comunicazione fra le tribù più lontane”.

Credo che anche in Appennino sia successo lo stesso. I nostri più lontani antenati hanno nominato i luoghi, e così li hanno creati attraverso i loro sogni: i nostri aborigeni, gli Umbri, i Sabini, poi i Piceni, i Marsi, i Sanniti, gli Irpini, non erano diversi dagli aborigeni australiani e i loro sogni sono rimasti attaccati ai luoghi per centinaia e centinaia di anni. E poi sono stati fatti propri, ingranditi o rimpiccioliti da migliaia di viandanti, finché l’Appennino è stato terra viva…

A cercarle bene queste mappe del sogno ci sono ancora, ma perlopiù l’Appennino di oggi ci appare di nuovo vuoto e desolato, come se dovesse essere percorso e sognato ancora una volta, possibilmente senza dimenticare quel che resta dei vecchi sogni, ma creandone di nuovi, in una nuova mappa.

Eppure per qualcuno “La mappa non è il territorio”. A questa espressione Korzybski ne aggiungeva un’altra, “la parola non è la cosa”, che spiega ancora meglio quali siano le conseguenze del farsi carico di questa comprensione. E’ un discorso interessante al quale probabilmente ha fatto seguito la famosa frase “Questa non è una pipa” usata da Magritte nel suo famoso quadro che raffigura, per l’appunto una pipa. Ma intanto il cielo si apre e una giornata scura s’illumina sopra i rami della grande quercia, sul tratturo che porta ai Palazzi
Così mentre osservi una stupenda fioritura d’iperico proprio nel punto in cui – lo avevi annotato mentalmente – l’avevi vista anche la scorsa estate, tanto da pensare che questo punto del viottolo sia quello maggiormente caro al sole, pensi che anche la tua mappa è un sogno.
E magari è un sogno anche la mappa della lucertola che attraversa il sentiero, sembra fermarsi a guardarti e poi sguscia via, registrando istintivamente che questo è il punto del passaggio degli uomini.
Dunque è vero: il territorio non è la mappa, ma è un sogno, come quello dei primi sciamani, come quello dei nostri avi italici e forse come quello dei nostri nonni. Ognuno ha la sua mappa perché ognuno ha il suo sogno del territorio, magari influenzato da quello degli altri, magari da quello degli antenati, magari da quello degli animali o delle piante. E il territorio può esistere ancora senza una mappa o un sogno?
Ci sono persone che impiegano una vita a costruire la mappa di un territorio e si può dire che in questo caso il loro sogno duri quella stessa vita.

Paul Valery scriveva: «Tutto quel che è semplice è falso. Tutto ciò che è complesso è inutilizzabile».

Ma il potere magico della filosofia consiste proprio nell’alimentare la voglia e la capacità di decifrare l’incommensurabile ordine della realtà.

E per un attimo infinito ti vedi camminare come il tuo doppio che camminerà sempre su questa terra, in un modo o nell’altro, in un mondo o nell’altro

Heimat non è un luogo, è un sentimento. La mappa non è il luogo, ma è voglia di perdersi in un luogo del cuore, fino a restarvi per sempre.

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